IL LINGUAGGIO MISTAGOGICO DELLA LITURGIA
di Mons. ENRICO MAZZA
PARTE PRIMA
Il titolo delle nostre due lezioni è: “Il linguaggio mistagogico”, per tanto il loro obiettivo primario dovrebbe essere definire cos’è la mistagogia. In queste due lezioni cercherò, quindi, di darvi alcune nozioni generali su questo argomento anche se non ho ancora chiare le priorità del mio discorso perché la mistagogia, di fatto, è un linguaggio nel senso moderno del termine, ovvero un modo di pensare. Perciò potremmo sensatamente partire col definire il linguaggio in sé, secondo l’approccio scientifico contemporaneo, come struttura ed espressione del pensiero.
Tuttavia credo sia più utile partire dal presupposto che il linguaggio mistagogico, nel suo specifico, si presenta già molto complicato perché ne abbiamo smarrito le categorie di riferimento ormai da secoli! Da qui potrebbe venire anche la prima vostra obiezione sul significato che può avere, per noi oggi, studiare un linguaggio i cui elementi costitutivi sono persi nella memoria dei secoli passati. A dire il vero mi sento spiazzato anche ad essere io colui che vi relaziona su questo argomento, di cui non abbiamo ancora chiara nemmeno la motivazione di un approfondimento. Dunque il quadro generale potrebbe essere riassunto in sintesi nel modo seguente: Io sono qui con voi, questa sera, ad offrirvi le mie conoscenze circa un linguaggio antico, che potrebbe anche suscitare delle perplessità e non sembrare per nulla attuale.
Quindi, procedendo per gradi e con semplicità credo sia importante chiarirci innanzitutto il significato della parola “mistagogia”. A questo proposito possiamo dire che i termini confluiti in questa parola sono essenzialmente due:
- “mistero” e
- “azione”, o meglio, “compiere un’azione che è in sé un mistero”.
Un ulteriore specificazione necessaria per evitare equivoci è evidenziare che, in questo contesto, è necessario anche recuperare un significato del termine “mistero” che non corrisponde all’attuale. Innanzitutto dobbiamo tenere conto che siamo nei primi secoli del cristianesimo e, in questo mondo antico, classico, i “misteri” sono dei riti utilizzati per mettere l’uomo in contatto con una determinata divinità. A questo proposito abbiamo una vasta gamma di misteri e, tra questi, i misteri eleusini e quelli legati al culto di Iside ed Osiride sono decisamente i più diffusi. Tutti i culti misterici, comunque, possono essere definiti come azioni che, in un certo qual modo, ripetono le azioni archetipiche compiute dal dio cui fanno riferimento. Esplicitando ulteriormente questo concetto potremmo dire che una certa divinità, in passato, anche in epoca preistorica, aveva compiuto una determinata azione e quanti ne praticavano il culto realizzando un’azione analoga o affine, attraverso l’esecuzione di un determinato rito, venivano in contatto con l’azione della divinità stessa. Questo aspetto analogico dei culti misterici, che può quasi essere paragonato all’arte dei mimi, sicuramente conserva una componente della mentalità infantile. Infatti, lo sappiamo bene, anche i bambini quando, ad esempio, vogliono rappresentare la loro intenzione di guidare una motocicletta con la bocca ne ripetono il tipico rumore e mettono le mani come se ne stessero effettivamente tenendo il manubrio. Quest’atto del bambino è sicuramente un gioco, ma rispecchia molti elementi dell’agire per analogia e può benissimo essere equiparato alle azioni compiute da coloro che celebravano un culto misterico.
Dunque, tornando ai culti misterici, questo principio dell’agire per analogia era la modalità utilizzata per fare rivivere le azioni degli dèi in mezzo agli uomini. Addirittura, quando, ad esempio, si celebravano i misteri di Iside e di Osiride nel tempio di Osiride, si credeva che fosse lo stesso dio Osiride a morire, più precisamente a venire ucciso, e a rinascere il giorno dopo. Anche la riproduzione del conseguente pianto della dèa Iside per la sua morte, da cui dipendeva la crescita del livello del Nilo e la relativa fecondità alla terra perché desse frutto abbondante, era assolutamente realistica. Lo stesso principio valeva per tutta la parte restante della storia, secondo cui, percorrendo il corso del Nilo Iside ritrovava il corpo smembrato di Osiride e lo ricomponeva, facendolo così rinascere. Questo culto, inoltre, aveva la singolare caratteristica di essere un culto circolare e ripetitivo. Osiride, infatti, una volta rinato moriva nuovamente per rinascere ancora e così via all’infinito. Ecco allora perché quando il Cristianesimo parlerà della morte e risurrezione di Cristo, questo annuncio non suonerà poi così strano, né tanto meno parrà insolito che vi fossero dei riti (come la Celebrazione Eucaristica e il Sacramento del Battesimo) che, in qualche modo, facevano rivivere, a coloro che professano tale fede, misteriosamente – per analogia – la morte e risurrezione di Cristo.
In questo contesto desidero, però, essere molto prudente, quindi affermo soltanto che non è insolito riscontrare come, in quel periodo storico, la Celebrazione Eucaristica e il Battesimo fossero percepiti come simili ai riti legati ai culti misterici. Su questa presunta similitudine non intendo, comunque, in questa sede aggiungere altro, poiché ancora oggi vi sono alcune scuole di pensiero che arrivano a sostenere la derivazione dei riti cristiani dai culti misterici. Naturalmente per noi tale tesi è assolutamente inaccettabile poiché siamo certi che non esiste alcun elemento oggettivo a suo sostegno, se non un certa consonanza della “terminologia” ricorrente negli uni e negli altri, e la scelta attuata da alcuni Padri della Chiesa di questo periodo storico di definire come “misteri” anche il Sacramento del Battesimo e la Celebrazione Eucaristica. Tali argomentazioni però non possono essere ritenute esaustive, poiché è naturale per quanti scrivono in un dato periodo storico e desiderano essere compresi utilizzare il linguaggio della propria epoca e del proprio ambiente culturale. Un esempio abbastanza evidente di questa logica ci è dato addirittura da San Paolo quando, parlando della sua intensa ed entusiastica attività apostolica che sta per giungere al termine, dice: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa …”. Ora se queste parole venissero interpretate letteralmente si potrebbe anche asserire che il Cristianesimo è un tipo di sport, ma risulta evidente come, qui, San Paolo stia usando una metafora sportiva facilmente comprensibile dai suoi interlocutori per significare qualcosa che non si riferisce propriamente all’attività sportiva in sé. Per correttezza storica devo, tuttavia, puntualizzare che oggi il dibattito sull’origine misterica del cristianesimo, sebbene sia ancora latente e pronto a riemergere non appena se ne presenta l’opportunità, non è più così attuale come fino a qualche tempo fa. Ad ogni modo la mia posizione in questo dibattito è chiara, ovvero mi trovo assolutamente solidale con coloro che vedono questa prossimità tra Cristianesimo e culti misterici solo ed esclusivamente nell’utilizzo di un linguaggio comune.
Riprendendo, dunque, il nostro discorso sul significato del termine “Mistagogia” a questo punto possiamo affermare che una delle sue possibili accezioni è compiere quel o quei riti che misteriosamente, ovvero attraverso il meccanismo dell’analogia, sono in grado di metterci in contatto con le medesime azioni compiute della divinità, o, ancora più precisamente, di farcele rivivere in prima persona. Certamente noi, oggi, siamo lontanissimi da questo discorso, perché consideriamo i Sacramenti come presenza reale di Dio in mezzo a coloro che li stanno celebrando.
Per noi oggi la dimensione dell’azione analogica è completamente perduta. La nostra teologia, infatti, parla di presenza viva e operante di Dio nel rito del Battesimo, nel rito della Penitenza e, soprattutto, nella Celebrazione Eucaristica; il linguaggio contemporaneo, che trae origine della nostra concezione della realtà, richiede che si usi questa categoria della presenza di Dio nei sacramenti. Nel cristianesimo antico, invece, il concetto della presenza di Dio nei sacramenti non è mai stato postulato, esso comincia, infatti, a farsi strada nella teologia medioevale, ovvero nel 1200!
Prima di questo secolo si parlava esclusivamente di “azione misterica”, o di “celebrare il rito dei misteri”, tutte espressioni che poi, guardando attentamente, sono state reintrodotte, dopo il Concilio Vaticano II, all’inizio della nostra Celebrazione Eucaristica e subito dopo la Consacrazione del Pane e del Vino. Ripercorrendo attentamente queste fasi della Celebrazione Eucaristica ci accorgiamo, infatti, che il Celebrante iniziando la liturgia penitenziale solitamente dice: “Per celebrare degnamente questi Santi Misteri riconosciamo i nostri peccati...” e subito dopo il racconto dell’Ultima Cena dice: “... Mistero della Fede!…”. L’assemblea risponde facendo memoria delle azioni compiute da Cristo che in quel momento noi stiamo rivivendo e dice: “… Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta …”. Queste espressioni vengono dalla Preghiera Eucaristica di San Basilio. Di certo le abbiamo tratte da un ottimo modello!
Quanto affermato finora ci fa comprendere molto più chiaramente che nell’azione rituale della Chiesa vengono celebrate le azioni compiute da Cristo stesso. E proprio questa è la premessa necessaria per affermare, sia che il significato della parola mistagogia è proprio compiere quelle azioni rituali analoghe agli eventi dell’Ultima Cena, della morte e risurrezione, dell’ascensione al cielo e della venuta plenaria di Cristo, sia che il Vescovo o il Sacerdote, cui è affidato di presiedere questa liturgia, dove si compiono appunto queste azioni analoghe a quelle di Cristo, può essere chiamato a pieno titolo mistagogo. Il passo successivo da compiere per addentrarci sempre di più in questo discorso è, tenuto conto che quando noi usiamo il termine mistagogia parliamo di un linguaggio, più precisamente di una catechesi, capire da dove deriva questa accezione. Ebbene, l’iniziatore di questa chiave di lettura della Celebrazione Eucaristica e dei sacramenti in generale è San Cirillo, vescovo di Gerusalemme, un uomo che ha cambiato il volto della Chiesa perchè ha organizzato e dato struttura a tutto quello che ne è il vivere quotidiano e, tra l’altro, ha impostato l’anno liturgico. San Cirillo diventa vescovo tra il 348/351, quindi nella prima metà del IV secolo, e lo diventa in modo abbastanza controverso.
A prescindere da questo aspetto puramente biografico, San Cirillo di Gerusalemme è una figura di primo piano della storia della Chiesa e diversi autori successivi si ispireranno alla sua opera. In questa sede è sufficiente ricordare che Sant’Ambrogio scrisse le sue catechesi sui sacramenti ispirandosi a quelle redatte da San Cirillo. Inoltre queste stesse catechesi di San Cirillo furono lette da Teodoro di Mopsuestia, il quale ne stese di proprie quasi completamente simili alle prime. Anche San Giovanni Crisostomo lesse le medesime catechesi di San Cirillo traendovi l’ispirazione, con molta più libertà, per redigerne di proprie.
Dalle sue fonti biografiche apprendiamo, inoltre, che San Cirillo, da giovane, divenne monaco, quindi ebbe l’opportunità di leggere molto attentamente le Sacre Scritture, acquisendo così una profonda cultura biblica. Questo è un dato quasi certo poiché, solitamente, nel IV secolo, i monaci , erano dei grandi conoscitori delle Sacre Scritture! Ecco perché in questo periodo storico, il monaco era colui che conosceva la Sacra Scrittura per antonomasia. Si dice, infatti che Sant’Antonio Abate, fondatore del monachesimo in Egitto, conoscesse la Sacra Scrittura a memoria, anche se forse non sapeva leggere!
San Cirillo, quindi, diviene un profondo conoscitore della Sacra Scrittura: ed è abbastanza naturale, per chi conosce tutta la Sacra Scrittura quasi a memoria, citare i passi adeguati ad ogni circostanza senza bisogno di cercarli sul testo scritto.
Quindi San Cirillo, dopo essere stato ordinato vescovo da Acacio, divenne vescovo di Cesarea (Gerusalemme, infatti, era sotto la cosiddetta “diocesi” di Cesarea e, quindi il vescovo Metropolita risiedeva a Cesarea e non a Gerusalemme).
Questa situazione dipendeva dal fatto che, dopo la distruzione di Gerusalemme, avvenuta ad opera dell’esercito romano, e la conseguente proibizione agli ebrei di potervi accedere nuovamente, questa città era stata rinominata “Ælia Capitolina [“Capitolina” in onore di Giove, “Ælia” in onore del console che, dopo aver seguito le operazioni militari di cui sopra, si occupava dell’amministrazione del territorio]. Di fatto, però, essendo stata rasa al suolo Gerusalemme ed abbattuto anche il tempio, l’esercito imperiale aveva posto il proprio accampamento in una spianata fuori delle antiche mura della Città. Quindi tutto era distrutto!
In questo contesto storico-politico San Cirillo sarà il primo a proporre, con grande coraggio e determinazione, di chiamare Ælia Capitolina nuovamente Gerusalemme, perché, per lui, abituato a vivere nel mondo della Bibbia, quella città si chiamava Gerusalemme e non “Ælia Capitolina”. Perciò, sarà da San Cirillo in poi che Ælia Capitolina ricomincerà ad essere chiamata Gerusalemme! Questo episodio ci fa comprendere un aspetto molto importante del carattere di quest’uomo, che fu autorevole a tal punto da sapere come far tornare i nomi biblici al loro posto anche a dispetto del parere discordante delle autorità politiche.
Purtroppo però, avendo ricevuto l’ordinazione dal metropolita di Cesarea, che era stato accusato di aver aderito alla corrente ariana (quindi di essere divenuto un eretico), anche San Cirillo venne, ben presto, sospettato di eresia! Oggi a noi sembra naturale affermare che gli ariani sono eretici, ma per gli uomini di quel tempo non era affatto facile distinguere nettamente l’eresia dall’ortodossia.
In quel periodo storico, infatti, alcune proposizioni tipiche dell’ortodossia nicena potevano benissimo essere interpretate come non propriamente ortodosse. Quindi un sacerdote come Cirillo, ancora giovane (aveva circa trent’anni), avrebbe potuto benissimo venire ordinato, e poi creato vescovo, senza saper distinguere con chiarezza la dottrina ariana dall’ortodossia. D’altra parte Ario era molto stimato e i monaci egiziani, che appoggiavano la sua dottrina, pronunciavano anatemi solenni contro i vescovi e i monaci che avevano, invece, accettato le disposizioni del Concilio di Calcedonia. E’ fondamentale tenere presente, quindi, che oggi, per noi, tutti questi monaci egiziani divenuti ariani, anche se hanno tenuto un comportamento ineccepibile per tutta la loro vita, non avendo accettato le disposizioni del Concilio di Calcedonia, oggi sono considerati, a pieno titolo, eretici!
Quindi anche San Cirillo, ad un certo punto, viene sospettato di essere ariano, e per questo decide di cominciare ad esaminare la questione correggendo progressivamente alcune espressioni, passibili di qualche fraintendimento, arrivando così alla perfetta ortodossia secondo i canoni applicati anche oggi.
Questo, inoltre, era un periodo storico in cui il vescovo era considerato un personaggio pubblico di notevole rilevanza, si potrebbe dire un vero e proprio punto di riferimento per tutto il popolo, quindi tutto quello che San Cirillo viveva in prima persona diventava determinante anche per tutta la società civile!
Di fatto, se si fosse rispettata la legge vigente, gli ebrei non avrebbero potuto risiedere ad Ælia Capitolina, essendone stati espulsi, tuttavia i cristiani di origine ebraica, poiché non erano più considerati ebrei a tutti gli effetti ed erano stati anche perseguitati dagli ebrei stessi, continuavano ad abitarvi, mentre gli ebrei vi poterono tornare ufficialmente solo con Giuliano l’Apostata. In Ælia Capitolina c’era una pesantissima atmosfera anti-semita e San Cirillo, purtroppo, non cercò di adoperarsi per pacificare gli animi. Eletto vescovo attorno al 348, decise, quindi, di tenere un ciclo di diciotto omelie per i numerosi catecumeni.
In queste Omelie il vescovo Cirillo spiega il significato dei misteri, ovvero dei sacramenti (Battesimo, Eucaristia, Confermazione ed esposizione del Simbolo della fede). E’ importante sottolineare che egli non preparò queste omelie ma le tenne parlando liberamente, perché conosceva a memoria le citazioni bibliche cui fare riferimento. Altrettanto utile può essere ricordare che c’era una persona preposta, detta tachigrafo, che, quasi stenografando, prendeva nota fedelmente di quanto il vescovo diceva nel suo discorso. Quindi, oggi, noi abbiamo queste omelie, che, di fatto, non furono scritte direttamente da San Cirillo, eppure lasciano trasparire un ordine mentale splendido: si può facilmente comprendere perché San Cirillo fosse così lodato per l’interesse e per l’entusiasmo che sapeva suscitare nei suoi ascoltatori. Queste omelie duravano circa un’ora; ma prima del vescovo, solitamente tenevano i loro discorsi i sacerdoti. A questo proposito può essere interessante sapere che ci è rimasta un’omelia tenuta da San Cirillo prima di diventare vescovo, anch’essa dura un’ora. Quest’omelia si conclude con delle scuse di San Cirillo per aver tolto del tempo al vescovo.
San Cirillo, nello specifico, tenne delle omelie sui seguenti argomenti:
- il Battesimo;
- la Cresima;
- il Credo.
In tali Catechesi “Battesimali” l’autore spiegava il significato dei due riti e del Simbolo della fede nel dettaglio, ovvero una frase dopo l’altra.
Anche sant’Ambrogio dedicherà un’omelia al Simbolo della fede spiegandone una frase dopo l’altra, e seguirà lo stesso procedimento per spigare il rito del Battesimo. In questo periodo storico, tuttavia, non si usava spiegare il significato dei sacramenti prima di amministrarli – per evitare che i candidati rimanessero delusi dalla semplicità del rito con cui il sacramento veniva loro amministrato. Solo una volta amministrato il sacramento i catecumeni venivano inviati ad ascoltare un’omelia molto solenne e ricca di citazioni bibliche che parlavano della potenza di Dio.
Quest’impostazione dipendeva dalla coscienza che, a volte, quando il sacramento viene amministrato non si sente propriamente la potenza di Dio e il catecumeno rischia di rimanere deluso.
Quindi per evitare questa reazione negativa, San Cirillo aveva scelto di non anticipare la spiegazione dei sacramenti alla loro effettiva amministrazione. Per giustificare questa sua scelta educativa San Cirillo affermava, come farà successivamente anche Sant'Ambrogio, che il tempo precedente alla effettiva amministrazione del Sacramento non è quello adatto per spiegarne il significato e il valore. Per preparare i catecumeni a ricevere i sacramenti San Cirillo preferiva, quindi, esporre la storia della salvezza. Solo in un secondo tempo, ovvero quando finalmente i catecumeni avevano ricevuto il sacramento del Battesimo e le sue unzioni, che noi, oggi, chiamiamo “Cresima”, e quando avevano ricevuto l’Eucaristia, allora San Cirillo teneva per loro le sue catechesi sui sacramenti, dette da lui stesso, appunto, “catechesi mistagogiche” (ovvero catechesi sui misteri o sacramenti che erano stati celebrati).
Quindi l’invenzione di questo termine ad hoc, per definire le catechesi con cui vengono spiegati i riti con i quali si celebra un sacramento, è attribuibile a San Cirillo. Quindi per comprendere meglio la modalità con cui si svolgevano queste catechesi è necessario conoscere meglio la struttura della Città di Gerusalemme in quel periodo storico. Come sappiamo l’imperatore Costantino dopo la conversione, che aveva cambiato radicalmente la sua vita, aveva deciso di intraprendere un progetto di “riqualificazione edilizia” della città di Gerusalemme, promuovendo la costruzione di un grande complesso architettonico, sul monte Calvario, dove era avvenuta la Crocifissione di Gesù, dove era stato sepolto ed era, poi risorto (l’attuale “Basilica del Santo Sepolcro” allora denominata il “martirium”, perché era luogo della testimonianza). Dunque questo complesso architettonico doveva coprire i tre luoghi fondamentali della storia della salvezza.
In quegli anni, però, Gerusalemme era stata distrutta e le era stato cambiato il nome in Ælia Capitolina, quindi era stata ricostruita secondo il criterio urbanistico romano, con le seguenti aree: una piazza per il mercato, uno spazio per la basilica e tutti gli spazi urbanistici tipici di una città romana.
Quindi i romani avevano, effettivamente, costruito una città in stile romano accanto alle rovine della Gerusalemme antica. Questo processo di ricostruzione si era spinto al punto da edificare un tempio dedicato al culto di Venere proprio sul monte Calvario. Pertanto la prima preoccupazione di coloro ai quali l’imperatore aveva affidato il compito di dare una nuova veste cristiana a Gerusalemme era indubbiamente provvedere alla demolizione del sopra menzionato tempio di Venere cominciando a scavare le fondamenta per il complesso architettonico commissionato da Costantino. Ecco perché gli operai cominciarono a scavare attorno alle fondamenta del tempio di Venere finché, improvvisamente, in una cisterna, trovarono delle assi di legno che potevano essere identificati come la Croce di Cristo. La leggenda del ritrovamento della Croce di Cristo da parte di Sant’Elena è posteriore di una trentina di anni, e Eusebio di Cesarea, che documenta il primo ritrovamento, non conosceva affatto questa leggenda del ritrovamento della Croce di Cristo ad opera di Sant’Elena.
L’elemento rilevante di questa vicenda è indubbiamente che il ritrovamento della Croce di Cristo, o presunta tale, diede un spinta notevole ai lavori per la costruzione della meravigliosa chiesa a pianta basilicale del Santo Sepolcro fortemente voluta dall’imperatore Costantino. E’ interessante rilevare, inoltre che se Costantino avesse voluto far costruire un edificio puramente celebrativo, avrebbe chiesto ai suoi progettisti di edificare una chiesa con la cupola, perché la cupola, in quel periodo storico, era simbolo di grande raffinatezza progettuale ed edilizia nonché significativa disponibilità economica, elementi che, solitamente, caratterizzano le iniziative dei grandi di questa terra. Dunque, se avesse voluto costruire un edificio puramente bello esteticamente secondo i canoni dell’epoca, avrebbe chiesto ai suoi tecnici di edificare una chiesa con la cupola, invece ha commissionato una basilica, ovvero una chiesa a pianta basilicale, perché fosse maggiormente funzionale alla celebrazione delle liturgie. E’ per questa ragione che la maggior parte delle chiese del mondo antico hanno una pianta basilicale pur presentando soluzioni diversificate al loro interno.
Tuttavia il complesso architettonico costruito dagli architetti di Costantino si presenta molto più articolato e complesso poiché risulta composto da tre edifici: il primo detto Anastasis, a pianta rotonda, ricopriva un edicola posta sopra la grotta nella quale si trovava la tomba di Cristo; poco più in là, non in asse perfetto, si trovava l’edificio denominato Martirium, ovvero la chiesa costruita sopra il luogo dove era stata rinvenuta la Croce, tale edificio era, quindi, la chiesa di Gerusalemme - quella che noi, oggi, diremmo il duomo, o chiesa parrocchiale di Gerusalemme - detta anche la chiesa maggiore; infine, il terzo edificio si trovava tra l’Anastasis e il Martirium sulla punta del Monte Calvario, all’interno della cinta muraria della città, perché i romani, costruendo Ælia Capitolina sopra le rovine di Gerusalemme, ne avevano allargato la pianta fino ad includere il monte Calvario, che si trovava fuori delle mura della città antica. Abbiamo, quindi tre luoghi di culto nei quali si tenevano liturgie diverse. Naturalmente il Battistero si trovava vicino al Martirium. La Chiesa Maggiore, detta Martirium (come abbiamo già ricordato sopra), era adibita esclusivamente alla celebrazione dell’eucaristia e alle catechesi sui sacramenti per i catecumeni.
Una volta che il catecumeno aveva ricevuto i sacramenti, però, la sua formazione successiva, ovvero l’esposizione del significato dei sacramenti ricevuti da parte del vescovo, veniva fatta nella chiesa della Risurrezione, detta Anastasis. All’Anastasis si accede attraverso una scala che porta alla grotta, identificata come tomba di Gesù, e per non contaminarla le è stata costruita attorno una cancellata. San Cirillo, solitamente, dava le spalle alla cancellata per permettere ai catecumeni, che gli stavano di fronte, di vedere la grotta e, in questa posizione, teneva l’omelia mistagogica inerente i sacramenti appena ricevuti dai suoi uditori. Possiamo, quindi, dedurre che le omelie sui sacramenti si tenevano solo davanti alla grotta - tomba davanti alla quale era avvenuta la risurrezione di Cristo.
Questa pratica era motivata dal fatto che quella grotta stessa era ritenuta un “martirium”, ovvero un testimone, della risurrezione di Cristo. La teoria a sostegno di tale pratica era la seguente: partendo dal presupposto che il catecumeno nei sacramenti doveva rivivere in sé la risurrezione di Cristo, ovvero il passaggio dalla morte alla vita nuova in Cristo – allora il luogo fisico ideale per spiegare il significato e il valore dei sacramenti appena ricevuti non poteva che essere la zona antistante la grotta, nella quale era effettivamente avvenuta la morte e la risurrezione di Cristo, affinché i catecumeni potessero vedere coi loro stessi occhi il luogo fisico nel quale erano avvenute sia la morte che la risurrezione di Gesù e riceverne, contemporaneamente, una spiegazione. Questa convinzione era talmente radicata, in San Cirillo e nei suoi collaboratori, che davvero le catechesi mistagogiche venivano predicate esclusivamente presso il Martirium, e se non era possibile per qualsiasi ragione recarvisi non venivano predicate neanche le catechesi stesse.
In quel periodo storico i sacramenti venivano amministrati prevalentemente nel corso della Veglia Pasquale, mentre le catechesi mistagogiche si tenevano durante la settimana successiva alla domenica dell’ottava di Pasqua, detta anche domenica in albis depositis; pertanto le catechesi erano sette, una per ogni giorno della settimana in cui si tenevano. Tuttavia, come abbiamo detto sopra, poteva esserne sospesa la predicazione se per qualsiasi motivo era necessario recarsi in un altro luogo per la Celebrazione Eucaristica, ad esempio sul monte Sion, dove era situata l’antica sinagoga cristiana, ancora gestita, con ogni probabilità, da Giacomo, il fratello del Signore. Si riteneva infatti, probabilmente a ragione, che proprio in quel luogo avesse avuto luogo l’Ultima Cena di Gesù e, quindi, che fosse il luogo in cui gli apostoli erano riuniti quando Gesù apparve loro a porte chiuse, e dove il giorno della Pentecoste lo Spirito Santo era disceso su di loro. Infatti la “stanza di sopra”, o “camera alta” citata negli Atti degli Apostoli era sicuramente all’interno di quella sinagoga riconosciuta come luogo di riunione dei cristiani giudei. Con questa metodologia San Cirillo darà origine alla teoria fondante dell’anno liturgico.
Secondo l’impostazione data da San Cirillo, quindi, i brani di Vangelo dovevano essere, possibilmente, proclamati nei luoghi in cui era effettivamente avvenuto l’episodio della vita di Gesù che vi si narrava. Ecco perchè nel giorno di Pentecoste, quando lo Spirito Santo era disceso sugli apostoli riuniti nella “stanza superiore” della sinagoga giudeo-cristiana del monte Sion, i brani relativi a tale evento contenuti nel Vangelo e negli Atti degli Apostoli dovevano essere proclamati proprio all’interno della sinagoga sul monte Sion, dove si era verificato l’evento di cui questi testi parlavano. I brani del Vangelo che riferivano della risurrezione di Cristo dovevano essere proclamati esclusivamente all’Anastasis. Di fatto, però, i vangeli della risurrezione di Cristo venivano proclamati tutte le domeniche. Noi, oggi, con l’introduzione dei tre cicli abbiamo perso questa tradizione e conseguentemente ci siamo anche dimenticati che di fatto la domenica è sempre il giorno della memoria della risurrezione.
E’ singolare a questo proposito notare come, invece, le agenzie turistiche, che propongono dei viaggi in Terra Santa, abbiano riscoperto il principio dell’anno liturgico introdotto da San Cirillo come utile strumento di lavoro e, quindi, alle guide turistiche che accompagnano i gruppi viene insegnato che bisogna leggere il o i brani delle Sacre Scritture che si riferiscono ad episodi accaduti nel luogo che il gruppo sta visitando. Ciò sembra paradossale se pensiamo che questo per San Cirillo, era, invece, il fondamento della pastorale diocesana dell’epoca; mentre per noi oggi è divenuto semplicemente uno strumento di lavoro nelle mani del marketing turistico. Tuttavia è giusto notare, sulla base delle testimonianze di alcune persone che hanno sperimentato questa strategia di comunicazione dell’esperienza cristiana, che essa è senza dubbio molto efficace anche per noi oggi. Quest’annotazione porta ad ammirare ancora di più l’abilità pastorale di San Cirillo che conserva ancora la sua potenzialità comunicativa!
Tornando alle Catechesi mistagogiche risulta quindi evidente che, se era necessario recarsi alla sinagoga presso il monte Sion per proclamare i brani delle Sacre Scritture che riguardavano i fatti
accaduti in quel luogo e celebrarvi un eucaristia, poi non era possibile recarsi per tempo anche all’Anastasis per tenervi la catechesi sui sacramenti in programma per quel giorno. Ecco perché in occasioni del genere veniva sospesa la predicazione della catechesi in programma. A questo punto è
necessario chiarire a chi erano destinate queste catechesi: prima di tutto a coloro che avevano ricevuto, la domenica precedente, il sacramento del Battesimo e dell’Eucaristia, ai neofiti, e a quei cristiani che desideravano parteciparvi nuovamente.
Come scritti di San Cirillo sono giunti fino a noi diciotto catechesi pre-battesimali, un’esposizione sul Credo, i discorsi sulla storia della salvezza nell’Antico e nel Nuovo Testamento, quelli sui sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia nella notte pasquale, e, infine, le sette omelie mistagogiche che venivano predicate nei sette giorni successivi alla settimana dopo Pasqua.
Abbiamo già ricordato che la definizione “catechesi mistagogica” è stata creata proprio da San Cirillo. Di fatto se cerchiamo su un qualsiasi dizionario scolastico Greco-Italiano il corrispettivo in italiano del verbo “katekeo”, da cui deriva il termine “catechesi”, troviamo di fatto una perifrasi ovvero: “fare risuonare”.
Dunque una catechesi, per essere efficace, avrebbe dovuto far risuonare nell’animo dell’ascoltatore non solo il ricordo visivo dei sacramenti appena ricevuti davanti alla tomba di Cristo la notte di Pasqua, ma anche l’esposizione dei brani biblici ascoltati in quella occasione e i contenuti salienti delle diciotto omelie, di un’ora ciascuna, ascoltate durante la Quaresima. Quindi la parola chiave dell’espressione “catechesi mistagogica” non è “mistagogica”, ma “catechesi”.
Ed il significato di questo termine, che ricaviamo da quanto appena spiegato, ci fa comprendere quanto oggi sia stato travisato. Infatti, per noi, lo sappiamo bene, tenere una catechesi vuol dire superficializzare un discorso fino al punto di renderlo comprensibile a tutti, e, se poi non viene capito comunque, miriamo a far passare almeno uno slogan, ma così facendo impoveriamo la cultura. Tuttavia è ormai una dato di fatto che le nostre catechesi si stiano sempre di più riducendo ad una serie di slogans. Dunque per noi tenere una catechesi su un determinato argomento significa semplificarlo; ma se un sacramento è un “mistero”, come si può spiegare facilmente? I sacramenti possono essere vissuti efficacemente, ma non possono essere spiegati in modo superficiale. Un sacramento non deve essere compreso, ma vissuto in prima persona, come qualsiasi esperienza esistenziale, non può essere razionalizzato; razionalizzare l’esperienza di un sacramento sarebbe come tentare di ridurre a teoria l’esperienza della vita e della morte: non è possibile!
Dunque, coloro che ascoltano le catechesi tenute da San Cirillo sono i neofiti, i quali appena finito di seguire la Messa celebrata nella Chiesa maggiore, scendono dietro l’abside della chiesa; in corrispondenza del luogo dove si trova l’Anastasis. San Cirillo, invece è già sceso prima di loro e si è posizionato con le spalle contro la grata che protegge la tomba del Signore quindi, appena gli uditori arrivano, lui comincia a parlare. Se vogliamo la scena potrebbe essere più o meno così: nel buio di fronte alla tomba del Signore – difatti anche con le candele accese si vede molto poco – San Cirillo comincia a parlare, di certo tutto questo doveva esercitare un fascino incredibile sugli ascoltatori, come lo eserciterebbe anche su di noi oggi! Infatti in queste catechesi San Cirillo ripercorreva tutto il rito del Battesimo che i suoi ascoltatori avevano appena vissuto, associando ad ogni gesto una citazione biblica di riferimento. Ma dei contenuti delle catechesi parleremo più nel dettaglio durante la prossima lezione. Sintetizzando possiamo, quindi, affermare che San Cirillo ha tenuto delle catechesi sul Battesimo e sul Simbolo della fede, e tali catechesi dette mistagogiche si svolgevano solitamente davanti alla tomba di Cristo. Molto probabilmente nel corso di queste meditazioni manifestavano anche visibilmente i propri sentimenti, quindi esultavano, si commuovevano fino al pianto, e si battevano il petto, in segno di penitenza; di certo alla fine erano profondamente toccati e forse anche realmente convertiti.
Un altro elemento della pastorale progettata da San Cirillo secondo cui era necessario recarsi nei vari luoghi fisici dove si erano verificati i fatti narrati nelle Sacre Scritture, era la pratica delle processioni, ovvero: alla fine della Celebrazione Eucaristica, se ritenuto opportuno per via delle letture proclamate nel corso della Celebrazione stessa, si partiva insieme, sacerdoti e assemblea e ci si recava ad esempio sul monte Sion o al monte degli Ulivi. E’ da notare che queste processioni erano molto partecipate e tutti, mentre camminavano verso il luogo stabilito come punto di arrivo, cantavano i salmi con grande devozione; non come accade oggi che si tende a distrarsi molto facilmente, un po’ come erano abituati a fare i pagani del tempo di Plutarco durante le processioni al santuario del dio-Sole!
All’arrivo nel luogo preposto, ad esempio il monte Sion, o il monte degli Ulivi, veniva celebrata una liturgia ad hoc, con la proclamazione del testo del Vangelo di riferimento, e di un salmo indicato per l’occasione e la relativa meditazione della durata di un’ora circa. Al termine di tale liturgia tutti scendevano nuovamente nella Chiesa maggiore per celebrare la liturgia delle Ore: con relativi salmi, il Vespro, il Lucernario – e tutte queste attività venivano svolte completamente a digiuno! Dunque tutta la città si fermava dalle proprie attività e trascorreva la giornata intera pregando con i salmi e ascoltando la proclamazione della Parola. Potremmo definire quella attuata da San Cirillo una pastorale globale.
San Carlo Borromeo, durante il suo episcopato ricreò a Milano un percorso simile a quello di Gerusalemme, con delle edicole votive dove si fermava con la croce per ripetere la modalità processionale impostata da San Cirillo. Il termine tecnico per indicare questa pratica è “sistema stazionale”. Oggi nel Messale si trovano ancora indicazioni delle cosiddette “stazioni” nelle varie chiese, perché il Messale è ancora strutturato per stazioni secondo l’impostazione dell’anno liturgico, e l’anno liturgico, l’abbiamo già evidenziato in precedenza, è nato grazie alle stazioni fissate da San Cirillo.
Per San Cirillo tenere una catechesi mistagogica non significava soltanto tenere ai neofiti una semplice lezione sui sacramenti di circa un’ora, come sarebbe oggi per noi che intendiamo il catechismo come parte della didattica scolastica e quindi da tenersi in un’aula scolastica, ma significava celebrare una vera e propria liturgia ad hoc presso la tomba di Cristo. San Cirillo intendeva quindi la catechesi mistagogica come parte integrante dell’anno liturgico. Nel lezionario armeno, essendo una trascrizione fedele della liturgia di Gerusalemme, possiamo trovare ancora tracce di questa impostazione. Bisogna però rilevare che anche il lavoro di trascrizione operato dagli armeni non è completo, poiché mentre stavano procedendo con questo lavoro, intorno agli anni cinquanta, data di pubblicazione dell’ultimo volume, i lezionari originari della Chiesa di Gerusalemme erano stati consumati o bruciati. Il lezionario copiato dagli armeni, invece è arrivato fino a noi e recentemente è stato ripubblicato da Padre Renu, un benedettino di Encalcat che ha compiuto i suoi studi a Parigi insieme a Padre Falsini. L’argomento della tesi di Padre Renu era proprio la produzione di un’edizione critica del lezionario armeno di Gerusalemme. Quindi P. Renu ha studiato l’armeno e due anni fa ha pubblicato l’edizione di cui sopra del lezionario armeno. P. Renu, che oggi ha circa ottantun’anni, di fatto, ha dedicato tutta la sua vita alla pubblicazione di questo lezionario armeno di Gerusalemme.
Quindi, consultando un lezionario armeno di Gerusalemme, si osserva che le pagine successive a quelle dedicate alla celebrazione della Pasqua sono dedicate, con descrizioni particolareggiate, alle processioni. Invece alla fine della parte dedicata alla Settimana Santa inizia proprio la sezione riservata alle catechesi mistagogiche. Quindi possiamo affermare con certezza che queste catechesi, per l’antica chiesa di Gerusalemme, facevano parte del anno liturgico. La sezione dedicata alle catechesi di cui sopra è impostata proprio come una celebrazione liturgica, completa di letture bibliche da leggere, salmi da recitare, preghiera e relativa benedizione ad hoc per ciascuna; naturalmente invita a tenere la meditazione sulla lettura biblica appena proclamata. La prima delle omelie mistagogiche di Cirillo porta proprio quella lettura indicata dal lezionario. In sintesi a noi sono arrivati, separatamente, il lezionario con le indicazioni delle letture bibliche da proclamare nel corso delle catechesi mistagogiche e in una raccolta separata, ovvero tra le opere di San Cirillo, il testo delle sue omelie mistagogiche tenute proprio sulle letture indicate nel lezionario.
Quindi solo leggendo attentamente possiamo riscontrare che la mistagogia è contenuta soprattutto nella lettura biblica, non nell’omelia di commento. Questo dato dovrebbe spingerci a riflettere seriamente e a rivedere l’impostazione delle nostre lezioni di catechismo, che spesso vengono condotte senza prima proclamare una letture biblica ad hoc!
Oggi leggere i testi delle catechesi mistagogiche di San Cirillo richiede circa cinque o dieci minuti, come mai allora risulta che San Cirillo parlasse per un’ora ai suoi ascoltatori? Questa differenza sostanziale di tempo dipende dal fatto che le catechesi mistagogiche di San Cirillo sono un testo liturgico, e i testi liturgici di quell’epoca pervenuti fino a noi erano semplicemente delle tracce, o schemi, del discorso che il predicatore doveva tenere per tutta l’ora prevista. Inoltre è importante notare che le omelie battesimali pervenute fino a noi non furono scritte direttamente da San Cirillo, che le predicò ai suoi ascoltatori parlando quasi a braccio, ma da uno stenografo il quale, dopo aver segnato al momento i punti salienti del discorso, li trascrisse in un secondo tempo.
Dunque possiamo dire, con una certa fondatezza, che delle omelie tenute da San Cirillo oggi possediamo solo ed esclusivamente gli schemi, o indicazioni di massima degli argomenti in esse
trattati. Sarebbe, inoltre, fondata l’ipotesi, secondo cui, questi schemi delle cinque catechesi mistagogiche giunte fino a noi – su sette complessive predicate da San Cirillo – siano stati scritti da Giovanni, successore di Cirillo nel ruolo di vescovo di Gerusalemme. Riguardo, invece, alla storia personale di San Cirillo è interessante ricordare che fu spesso esiliato: rileggendo alcuni passaggi della sua biografia sembra quasi che le autorità a lui contemporanee riuscissero sempre a trovare un qualche appiglio per allontanarlo dalla sua sede vescovile! Ad esempio la prima occasione per esiliarlo viene offerta al successore di Costantino poiché San Cirillo aveva deciso, per soccorrere la popolazione di Gerusalemme durante una tremenda carestia, di vendere uno splendido abito intessuto d’argento e d’oro regalatogli da Costantino in persona che gli aveva imposto, invece, di farne uso esclusivamente per le celebrazioni nella Chiesa maggiore. Costantino, infatti, era fermamente convinto che si doveva tenere il massimo decoro nelle celebrazioni che si svolgevano nel luogo in cui Cristo era morto e risorto e San Cirillo aveva un ottimo rapporto con lui, di questo abbiamo una testimonianza scritta nella bellissima lettera inviata da Cirillo all’Imperatore. San Cirillo, però, era prima di tutto un vescovo con delle precise responsabilità anche di testimonianza personale oltre che di magistero, verso il popolo affidato alla sua guida spirituale; per questa ragione, quando dopo la morte di Costantino la carestia sopra citata colpì Gerusalemme, tutti, senza distinzione, dai cristiani agli ebrei fino ai pagani, si rivolgevano a lui per chiedere aiuto. E, sebbene in tempi normali lui fosse stato durissimo coi pagani, ora intendeva aiutare tutti. Per questa ragione prese il magnifico vestito d’argento e d’oro regalatogli da Costantino e lo vendette, per aiutare quanti si rivolgevano a lui. Purtroppo il mercante che lo comprò successivamente lo rivendette a sua volta ad un attore di teatro, il quale non si fece scrupolo ad andare in scena indossando proprio quel vestito. I vescovi, avversari di San Cirillo, riferirono l’accaduto appunto al successore di Costantino, il quale decise di mandare in esilio San Cirillo per punirlo della vendita di quell’abito. Questo episodio ci aiuta a osservare un elemento interessante nella storia della Chiesa in generale, ovvero che tutti i grandi vescovi di qualsiasi tempo, quando il popolo loro affidato era colpito da una carestia, da una calamità naturale, da un’epidemia o da una guerra, hanno deciso di vendere i loro beni per poter dare un aiuto concreto a quanti si rivolgevano a loro. Ad esempio a Milano, anni dopo la grande epidemia di peste dell’epoca di Carlo Borromeo, molti poveri usavano ancora gli abiti di casa Borromeo, perché il vescovo Carlo Borromeo, oltre a vendere la maggior parte dei suoi abiti, aveva anche regalato a chi ne aveva necessità quelli che non riusciva a vendere.
Tornando a San Cirillo sarà Giuliano l’Apostata, per la verità, che fece rientrare tutti gli esiliati, a concedergli di rientrare in Gerusalemme. Comunque, durante il periodo del suo esilio – durato circa dieci anni – la chiesa di Gerusalemme aveva continuato a seguire le sue indicazioni pastorali perché il clero del luogo, a lui fedele, ormai aveva appreso molto bene come predicare le catechesi battesimali servendosi delle tracce delle omelie predicate da San Cirillo stesso e trascritte dallo stenografo. Quindi la tradizione di San Cirillo era ancora viva a Gerusalemme.
In conclusione mi sento quindi di affermare che la catechesi mistagogica è una vera e propria liturgia della Parola completa di lettura biblica, salmi, relativa preghiera, omelia e benedizione finale. Anche se l’ordine non è chiaro, perché sembra che in alcuni casi la benedizione sia data all’inizio della celebrazione. Comunque sia, associare, tenendo fede al metodo di chi effettivamente predicava la catechesi mistagogica, la lettura biblica all’omelia ad essa relativa, fa sicuramente “risuonare” il senso dei sacramenti celebrati. Da tutto ciò risulta evidente che per tenere una catechesi mistagogica o per ascoltare con efficacia, è senz’altro necessaria una cultura biblica consolidata a tal punto da essere in grado di inserire ogni citazione nel proprio contesto, così da farla risuonare nel proprio cuore e nella propria mente con un’efficacia tale da arrivare a far risuonare il sacramento stesso cui riferisce. Ecco perché da queste catechesi emerge chiaramente la definizione del sacramento come mistero, perché esso può solo risuonare dentro la coscienza dell’ascoltatore, ma non può essere spiegato con un ragionamento razionale e scientifico. Dunque torniamo ad affermare quanto detto sopra, ovvero che il sacramento deve necessariamente essere vissuto, più che compreso razionalmente. A noi è chiesto di comprendere il mistero della fede non i sacramenti!
Nel corso del Concilio Vaticano II affrontando il tema della liturgia alcuni dei partecipanti hanno affermato che i fedeli devono comprendere il rito, il sacramento, la liturgia e il suo contenuto, (ovvero il mistero della fede). Ma il cardinale Bea, grande biblista, è intervenuto e ha affermato con determinazione che i fedeli non devono capire la liturgia e il suo contenuto, devono piuttosto capire il mistero della fede, ovvero il contenuto della liturgia, attraverso la liturgia stessa”.
Quindi, condividendo questa impostazione, possiamo dire che i fedeli devono comprendere solo il contenuto sacramentale. La liturgia deve servire loro da tramite. Questo era di fatto il metodo utilizzato da San Cirillo, nelle sue catechesi mistagogiche, non spiegare il sacramento in termini razionali, ma farlo rivivere, ovvero risuonare nell’ intimo dei suoi ascoltatori!
Risposta a una domanda sull’età dei neofiti:
Nell’epoca di San Cirillo si stava passando da un regime di battesimi di adulti aperto anche ai bambini, a un regime di battesimo preferibilmente di bambini, accessibile ancora agli adulti. Tuttavia la maggior parte erano adulti. La questione del battesimo di bambini non si poneva in questo periodo, perché se si facevano battezzare gli adulti di casa, venivano battezzati anche i figli. Basilio scrive ai giovani, incoraggiandoli a farsi battezzare quanto prima e non aspettare di diventare vecchi, perché il battesimo serve per vivere e i giovani hanno tutta la vita davanti. Però San Basilio e Sant’Agostino furono ambedue battezzati in età adulta – ci si battezzava quando si aveva la fede. Noi però non sappiamo condurre alla fede come sapeva fare San Cirillo.
Altre notizie su Cirillo:
La “politica” di San Cirillo alla fine è stata premiata. Al Concilio di Costantinopoli I nel 381, egli era il vescovo più importante e riuscì a far passare il decreto che rendeva Gerusalemme sede patriarcale. Fino ad allora Gerusalemme era sottoposta al vescovo di Cesarea, ma in questo caso San Cirillo aveva fatto vescovo di Cesarea suo nipote, che non gli creò problemi… San Cirillo fece passare un decreto che stabiliva come primo patriarcato Roma, come secondo Costantinopoli - perché era sede imperiale -- come terzo Antiochia - poiché lì aveva vissuto San Pietro, e come quarto Gerusalemme, ufficialmente sottoposto a Cesarea, però di fatto superiore al patriarcato di Cesarea. Già in alcuni concili non veniva menzionato più il vescovo di Cesarea, ma soltanto il patriarca di Gerusalemme. E’ giusto anche ricordare che San Cirillo si impegnava molto volentieri per dare lustro alla chiesa di Gerusalemme, la quale, con la costruzione del complesso costantiniano, era diventata la più importante dopo quella di Roma, anche se gli altri vescovi e patriarchi non condividevano molto questo suo zelo.
IL LINGUAGGIO MISTAGOGICO DELLA LITURGIA
SECONDA PARTE
Nel mondo tardo-antico, quando inizia a diffondersi il cristianesimo, i “culti misterici” e i riti ad essi legati avevano grande rilevanza, e coloro che appartenevano a qualche confraternita si sentivano molto importanti proprio a motivo di tale appartenenza. A questo proposito è davvero interessante osservare le dinamiche interne ad una religione misterica. Innanzitutto un candidato doveva attendere molto tempo prima di essere ammesso alla celebrazione del rito, detto appunto “mistero”, perché esso doveva essere nascosto al pubblico e noto solo ai pochi iniziati che potevano praticarlo. Gli iniziati, inoltre, non dovevano assolutamente spiegare i contenuti dei riti a cui partecipavano al di fuori della loro ristretta cerchia. Per questa ragione, ancora oggi, non conosciamo con precisione i contenuti di tutti i culti misterici. Il contenuto di un culto misterico, o, più comunemente, una sua sintesi, veniva divulgato solo quando il culto stesso non era più eseguito. Questa divulgazione dei contenuti generici e dei diversi riti con cui venivano praticati i vari culti misterici avrà quindi il suo apice nel momento di maggior diffusione della religione cristiana, che li supererà tutti per numero di adesioni.
Risulta comunque evidente che l’elemento fondante di tutti questi riti era il forte coinvolgimento emotivo dei partecipanti. Un esempio evidente di questo ancoramento del mistero al trasporto emotivo che esso generava nel partecipante è sicuramente dato dai riti legati al culto di Mitra, un dio rappresentato come un giovanetto con in testa un cappello frigio (copricapo simile a quelli usati durante la rivoluzione francese). Questo culto misterico si diffuse in tutta l’Europa, fino nelle isole britanniche. I riti legati al culto del dio Mitra di solito si svolgevano in locali sotterranei, grotte collegate fra di loro con corridoi, o caverne collegate con una sorta di labirinto ed incroci vari; solo gli iniziati conoscevano esattamente il percorso da seguire per non smarrirsi in questi sotterranei. Il candidato, invece, ignaro di tutto, veniva invitato ad entrare nel buio, e doveva percorre l’itinerario da solo guidato dalle luci delle fiaccole poste in corrispondenza dei vari incroci. Inoltre il candidato era inseguito da un toro imbizzarrito. Scopo di questo rito era suscitare nel candidato un forte shock emotivo. Di sicuro nel buio, sotto la luce intermittente delle fiaccole, sentendo le urla di coloro che assistevano, i rulli dei tamburi, nonché percependo la corsa infuriata del toro che lo inseguiva il candidato provava una forte scossa adrenalinica! Bisogna inoltre tenere conto che si trattava di un rito segreto e nessuno degli osservatori sapeva fino in fondo come si sarebbe concluso. Ad ogni modo di solito il povero candidato impaurito, inciampando e sbattendo contro le pareti dei corridoi, finiva in una buca che veniva chiusa, il toro, invece, arrivava e cadeva sulla grata posta sopra la buca. A questo punto, l’incaricato della celebrazione dei misteri arrivava e uccideva il toro, tagliandogli la vena giugulare, in modo che il sangue dell’animale colando in gran quantità sul candidato gli riempisse anche la bocca.
Possiamo quindi immaginare il livello dello shock traumatico vissuto dal candidato che si trovava ad avere un toro imbizzarrito ed appena ucciso sopra di se e sentiva il suo sangue che gli colava addosso in tale quantità da riempirgli anche la bocca! Sicuramente sarà stato terrorizzato da una esperienza simile. Dunque, superata questa prova traumatica, angosciosa e terrificante, il candidato aveva una fortissima reazione emotiva, che una volta rielaborata lo portava alla crescita attraverso il superamento della paura.
Un tale vissuto potrebbe infatti essere paragonato a quello proprio di un soldato contemporaneo che, durante un azione di guerra, si è salvato, per caso, dai colpi di una mitragliatrice gettandosi in una buca lasciata da una bomba. E’ indubbio che questo tipo di emozioni così intense accompagnano una persona per tutta la vita! Quando un soldato che ha vissuto un esperienza di questo tipo torna a casa, è sicuramente cambiato radicalmente; non è più il ragazzo che era partito per la guerra, ma è diventato un uomo maturo segnato profondamente dell’esperienza traumatica che ha vissuto.
Tornando al culto di Mitra possiamo, quindi, affermare che anche il nostro candidato, dopo la celebrazione di un rito iniziatico di questo tipo, di sicuro se era ancora vivo, portava con se un’esperienza unica e da tenere assolutamente segreta.
Ecco perché per prepararsi a questo rito il candidato doveva vivere circa due anni di “noviziato”, durante i quali imparava i segreti del dio, di cui il rito iniziatico che aveva appena vissuto era parte integrante. Poi, finito il rito, la sua vita cambiava radicalmente perché lui diventava più maturo e consapevole. Tali premesse ci aiutano a percepire con maggiore chiarezza che lo scopo di un rito iniziatico così strutturato non era il suo compimento puro e semplice ma il conseguente shock emotivo in chi vi aveva partecipato, finalizzato ad ottenere un radicale cambiamento gli nella sua vita.
Erano finalizzati ad un tale scopo anche tutti gli altri culti misterici, ma il culto di Mitra é quello che fa risaltare meglio una simile finalità. Avrei potuto descrivervi anche i misteri di Artis, studiati particolarmente dal professor Cosi, prima all’Università Cattolica di Milano, ora a Bologna (Storia comparata delle religioni).
Ma il rito iniziatico del culto di Artis finisce addirittura con la morte atroce del candidato.
Esistono anche dei culti misterici che non prevedono eventi traumatici nei loro riti iniziatici, ad esempio i misteri eleusini. Questi misteri, infatti, come rito centrale avevano una festa nelle campagne che si protraeva per tutta la notte. Durante questa festa le donne salivano su un carro e mentre eseguivano danze rituali in onore del dio veniva loro offerta una gran quantità di vino. Anche tutti gli altri partecipanti venivano incoraggiati a bere vino fino al limite della loro tolleranza. Quindi, al mattino, ovvero quando cominciava ad albeggiare, il sacerdote mostrava una spiga di grano da cui, grazie alla benevolenza delle divinità che erano state celebrate nella notte precedente, sarebbe stato prodotto il pane per tutti. In fondo anche in questo caso i presenti vivevano un’emozione particolare vedendo una spiga di grano e ascoltando il discorso del sacerdote mentre ancora si trovavano sotto l’effetto del vino bevuto nel corso della notte precedente. Nei culti misterici abbiamo, quindi, l’esperienza di tutte le varie tipologie di emozioni generate dalle più diverse esperienze proposte ai candidati nei riti iniziatici. Più nello specifico, si va dell’esperienza della morte nel culto di Artis a quella del vedere, in stato di ebbrezza, l’inizio di una vita o meglio della sua possibilità attraverso la contemplazione della spiga di grano da cui verrà prodotto il pane nei culti eleusini sopra descritti. In conclusione potremmo quindi dire che i culti misterici, se sperimentati nel loro complesso, permettevano al candidato di conoscere tutta la gamma delle esperienze umane possibili e i relativi sentimenti ad esse collegate. Comunque, ad un certo punto l’Imperatore, con una certa fermezza, iniziò a proibire la pratica dei culti misterici a partire da quelli legati ad Artis. Ciò che indusse maggiormente l’autorità imperiale a dichiarare fuori legge tali attività fu la segretezza con cui si svolgevano i raduni ad esse legate. Infatti, come abbiamo già osservato, i culti si svolgevano, solitamente, in luoghi oscuri ed appartati dove persone non del tutto identificabili da parete del potere costituito e, probabilmente, di alto rango si davano appuntamento per eseguire pratiche e discutere di questioni non dichiarate pubblicamente in precedenza. Fu soprattutto per tali ragioni che l’Imperatore, assimilando questa tipologia d’incontri alle riunioni clandestine tenute da quanti volevano organizzare l’opposizione al potere costituito, decise di dichiarare illegali tutti i culti misterici senza alcuna distinzione.
Comunque, ciò che interessa maggiormente la nostra indagine odierna è che nel momento in cui i culti misterici cominciano a perdere la loro rilevanza come fenomeni sociali il loro linguaggio viene ereditato, quasi completamente, dal cristianesimo. Dobbiamo, quindi, tenere presente che su questo passaggio del linguaggio proprio dei culti misterici al cristianesimo ancora oggi è incorso una grande disputa. La questione fondamentale di questa disputa è se il cristianesimo sia da considerarsi una religione misterica come le altre o se, piuttosto, non sia una religione del tutto nuova che ha semplicemente adottato il linguaggio misterico perché proprio si sviluppò nell’epoca in cui era maggiormente diffuso. A tale proposito possiamo ricordare che la prima ipotesi fu sostenuta da P. Odo Casel, monaco benedettino, mentre la seconda fu difesa da P. Rahner, sacerdote gesuita.
La tesi di P. Casel va però maggiormente argomentata e ciò può essere fatto studiando le note poste in calce ad alcuni suoi scritti. Questa tecnica, infatti è ottima per conoscere le fonti dell’autore di cui si sta leggendo l’opera. Dunque, analizzando queste note ci rendiamo conto che gli autori, ovvero i Padri della Chiesa, cui P. Casel si riferisce, che sostengono la tesi della natura misterica del cristianesimo, vissero tutti dal secolo IV in poi, ad eccezione Clemente Alessandrino, il cui linguaggio era, però, significativamente metaforico. Quindi possiamo tranquillamente affermare che P. Casel si fonda quasi esclusivamente su autori del IV secolo e non considera gli scritti di epoche precedenti.
Nel IV secolo nasce la definizione dell’Eucaristia come “mistero tremendo”. Il termine tremendo deriva dal termine greco “phoberós”, o, in alternativa, “phriktós” e significa, letteralmente, “che fa tremare”. Con questa definizione dell’Eucaristia viene introdotto all’interno del sacramento stesso uno stato emotivo, ovvero la paura, che era, originariamente, proprio dei culti misterici di cui abbiamo appena parlato. E’ però anche vero che l’espressione “mistero della fede”, ancora oggi pronunciata dal sacerdote durante la Celebrazione Eucaristica e precisamente al termine del racconto dell’Ultima Cena, trae origine proprio da questa definizione dell’Eucaristia stessa come “mistero tremendo”. Per maggior precisione, però, è giusto dire che l’espressione “mistero della fede” fu introdotta in sostituzione della definizione “mistero tremendo”, non accolta positivamente in Occidente! Dunque la concezione dell’Eucaristia come “mistero tremendo” è proprio tipica del IV secolo. Infatti, ad esempio in Siria, la liturgia era gioiosa e l’espressione usata al termine della consacrazione era: “Nella gioia riceviamo questo modello (l’Ultima Cena) che viene da te!”. Sarà Giovanni Crisostomo, invece, seguendo la linea bizantina, a parlare di “mistero tremendo!”, accogliendo così l’eredità della celebrazione misterica.
Dobbiamo sempre tenere presente che il concetto di “mistero tremendo” sottintende una indicazione di questo tipo: “Bisogna essere molto prudenti quando si riceve la Comunione, perché il mistero eucaristico è davvero tremendo, ovvero se non si è nella disposizione di animo corretta, si viene condannati irrimediabilmente!”.
Questo è il significato dell’espressione “mistero tremendo”. Tuttavia ci può essere anche qualcosa in più: l’Eucaristia, infatti, essendo un “mistero tremendo”, se da un lato richiede che ne venga filtrato, in un certo senso, l’accesso ai fedeli attraverso il controllo della loro disposizione d’animo, dall’altro lato, invece, diviene strumento di giustificazione davanti a Dio, come una sorta di scudo di fronte al giudizio di condanna che, guardando alla nostra natura di peccatori, dovrebbe dare su di noi.
Quindi, ancora una volta, la logica sottesa a questa definizione è che, quando viene celebrato questo “mistero tremendo”, Dio, che guarda il mistero che viene celebrato, dovrebbe avere pietà di noi e non giudicarci secondo le nostre opere, ma secondo la Sua misericordia. Da queste considerazioni appare più chiaro, perciò, che il concetto di “mistero tremendo” ha una duplice valenza, ovvero: è un invito pressante per noi, credenti a migliorare il nostro accesso all’ Eucaristia attraverso un maggiore controllo della nostra condizione morale, ma è anche una invocazione nei confronti di Dio perché ci protegga e ci giustifichi. In conclusione, aldilà di queste valide considerazioni, è comunque importante ricordare ancora che la definizione “mistero tremendo” in sé viene dai culti misterici e, in quei contesti, significava semplicemente lo shock emotivo generato nel candidato che sperimentava l’iniziazione.
Anche il concetto di “segreto”, così come lo troviamo espresso nelle catechesi mistagogiche – ricordiamo come lo stesso termine “mistagogico” significhi : celebrare un mistero che, in quanto tale bisogna tenere riservato o nascosto – deriva dai culti misterici. E’ importante, però, evidenziare che la motivazione addotta da San Cirillo di Gerusalemme all’inizio del suo discorso catechetico, nonché, in un secondo tempo, da Sant’Ambrogio (il quale, come abbiamo precedentemente ricordato, legge le catechesi di San Cirillo e ne trae spunto per scriverne di sue, improntate sul modello di quelle di San Cirillo), per sostenere la segretezza o misteriosità dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, è divergente da quella espressa dai culti misterici di origine pagana. Infatti per San Cirillo, come del resto per Sant’Ambrogio, si tratta di una motivazione di natura puramente psicologica, ovvero: ambedue ritenevano che non fosse opportuno spiegare i contenuti dei sacramenti (il Battesimo e l’Eucaristia) prima di averli amministrati ai catecumeni. Di fatto, quindi, potremmo dire che essi scelsero di sfruttare, per la formazione dei catecumeni, l’aspetto meramente psicologico della sorpresa già presente nei culti misterici pagani e dovuto all’ignoranza da parte del candidato su come si sarebbe effettivamente svolto il rito iniziatico e sul suo esito finale. Questa tecnica otteneva sicuramente l’effetto desiderato, ovvero di tenere desto l’interesse dei catecumeni fino al momento e durante la celebrazione del sacramento. Ecco perché San Cirillo, Sant’Ambrogio, San Teodoro, San Giovanni Crisostomo e tutti gli altri Padri non spiegavano il significato dei riti di un sacramento prima di averlo effettivamente amministrato al o ai catecumeni. Noi, invece, oggi tendiamo a spiegare nel modo più esaustivo tutto, prima che sia stato fatto e per questo ci serviamo di tutti gli strumenti di comunicazione disponibili: televisione, giornali e libri! Ciò che ci sfugge, così facendo è l’essenza vera dei misteri, che non sono azioni da spiegare: ma eventi da vivere in prima persona. In una parola ci siamo dimenticati che i sacramenti possiamo comprenderli a fondo solo vivendoli.
La logica sottesa a questa scelta educativa dei Padri della Chiesa è la seguente: il sacramento non deve essere spiegato prima che il catecumeno l’abbia effettivamente ricevuto, perché se gli si comunica prima quanto vi è contenuto, si corre il rischio che il catecumeno, nel momento in cui si trova a partecipare al rito rimanga deluso dalla sua semplicità. Ad esempio quando, dopo lo svolgimento effettivo del rito, veniva spiegato ai catecumeni che l’altare rappresentava la forma del Corpo di Cristo di sicuro tutti rimanevano meravigliati. Se, invece, gli fosse stato spiegato prima, probabilmente trovandosi di fronte all’altare concreto, e vedendo un semplice tavolino, i catecumeni sarebbero rimasti delusi. Così allo stesso modo il rito dell’unzione, nel corso del quale il catecumeno vede la mano del vescovo che si posa sul suo capo e lo unge con il Sacro Crisma: se fosse stato spiegato prima al catecumeno che la mano del vescovo è la mano di Dio, poi, vedere solo la mano del vescovo che lo unge con dell’olio che cola dalla sua fronte sarebbe stata un’altra delusione. Anche lo stesso olio usato per l’unzione: se fosse stato spiegato prima al catecumeno che l’olio era in realtà lo Spirito Santo, percependo sulla propria pelle dell’olio normale sarebbe rimasto deluso, mentre ascoltandolo dopo aver ricevuto l’unzione egli rimaneva di certo sorpreso di scoprire che quell’olio era effettivamente lo Spirito Santo. Lo stesso ragionamento può essere fatto per il rito del Battesimo: se gli fosse stato detto prima del rito che era la mano di Dio, di Gesù ad immergerlo nel fonte e poi avesse visto che era semplicemente la mano del vescovo che lo spingeva sotto l’acqua, come per farlo annegare, non ci sarebbe stato nessuno shock emotivo, solo una grande delusione. Al limite avrebbe sentito la paura di annegare!
Invece quando i catecumeni partecipavano al rito battesimale senza sapere cosa sarebbe successo e si vedevano coinvolti in tutti i gesti simbolici ad esso legati, rimanevano sbalorditi e frastornati perché non ne conoscevano neanche la progressione temporale. Solo la settimana successiva il vescovo, nella fattispecie San Cirillo, tenendo l’omelia di spiegazione del rito appena vissuto, prima di tutto citava i passi biblici di riferimento per poi spiegarne l’applicazione ai vari elementi del rito e al suo complesso. Ad esempio spiegava che il catecumeno in ogni momento del rito era guidato nel suo percorso dallo Spirito Santo e ancora che quando vedeva il vescovo compiere un determinato gesto in realtà vedeva Dio Padre, o Gesù stesso che compiva quel determinato gesto su di lui.
La sintesi tra l’esperienza oggettiva del rito senza spiegazione preliminare e la sua successiva esplicazione, una volta conclusa l’azione, offriva la possibilità concreta di rielaborare su un livello di comprensione spirituale, nella propria coscienza, l’esperienza del rito, riattualizzandola attraverso la descrizione che il predicatore ne offriva. Ecco perché San Cirillo denominò questo tipo di omelie “catechesi”, termine che, come abbiamo già ricordato, vuol dire “far riecheggiare”.
Per noi, oggi, tenere una catechesi vuol dire, invece, enunciare i principi della dottrina cristiana. Abbiamo perso proprio la dimensione psicologica che questo tipo di approccio all’iniziazione cristiana implicava per i Padri della Chiesa.
Personalmente, credo che oggi, nell’era della psicoanalisi, sarebbe assolutamente utile recuperare quest’attenzione alla dimensione psicologica nella formazione cristiana! Dovremmo recuperare un’attenzione maggiore ai significati dei riti ricordandoci, appunto come insegnavano i Padri, che essi non devono essere spiegati a priori, ma vissuti senza spiegazioni preliminari. Tornando a San Cirillo, quindi, osserviamo che nella sua ultima catechesi usa il termine “mistero”, proprio per indicare quello che accadeva durante lo svolgimento dei Sacramenti. Questa definizione del sacramento come mistero verrà ulteriormente accentuata dall’aggiunta dell’attributo “tremendo”, “terribile”, proprio in questi secoli. Quindi possiamo affermare con certezza che un testo, nel quale compare il concetto di “mistero tremendo”, è stato scritto o nel IV secolo o in un epoca successiva ma non in una precedente.
Da quanto detto fin ora noi capiamo perché oggi sarebbe davvero necessario recuperare l’efficacia psicologica dei riti legati ai sacramenti celebrati senza spiegazione preliminare. Dovremmo anche riprendere la tradizione di tenere delle successive catechesi esplicative dei contenuti del sacramento e non delle fasi di cui è composto il rito. Nella lezione precedente avevamo spiegato che le catechesi mistagogiche erano tenute da San Cirillo nella grotta in cui si trovava la tomba di Cristo, quindi nel luogo in cui erano avvenute sia la morte che la resurrezione del Signore, ovvero il Suo passaggio dalla morte alla vita nella sua risurrezione. Tale luogo era, pertanto, il più indicato per spiegare ai catecumeni il sacramento battesimale, che ripeteva in loro tale passaggio. Come dicevamo nella scorsa lezione, San Cirillo usava posizionarsi con la schiena contro la grata che proteggeva la grotta e proclamare una lettura biblica, quindi veniva recitato un salmo, e, infine, teneva la sua omelia, un capolavoro, di cui sono arrivati a noi solo gli schemi. Solitamente si concludeva con una la preghiera finale e la benedizione.
Quindi la più antica forma di catechesi è una liturgia della Parola, non una conferenza tenuta in un’aula scolastica come solitamente noi teniamo le lezioni di catechismo oggi.
Noi, oggi, quando parliamo di catechesi mistagogica pensiamo sempre esclusivamente all’omelia mistagogica, invece consultando il lezionario armeno, perché le catechesi mistagogiche ci sono arrivate solo nella traduzione armena di Gerusalemme, parallela a quella di San Cirillo, possiamo riscontrare che nella settimana dopo Pasqua sotto la voce “Mistagogia” abbiamo l’indicazione di una lettura biblica per ogni giorno, del relativo salmo, della benedizione e dell’omelia, quest’ultima, poi, non è riportata integralmente. Da questo possiamo dedurre che il termine “Mistagogia” indica, di fatto, la lettura biblica di riferimento ed è quella che conta. Oggi, invece, noi abbiamo paura di citare e/o di leggere i testi biblici durante le catechesi e sbagliamo, perché un testo biblico debitamente scelto, certo con l’ausilio del relativo commento, aiuta a far risuonare il vissuto della celebrazione del sacramento. Solo così si può arricchire realmente la propria esperienza. La cultura dei sacramenti è cultura dell’esperienza! In questa logica, quindi, emerge chiaramente il valore educativo dell’esperienza concreta; la vita di fede non si impara efficacemente dalle nozioni, ma dall’esperienza diretta. Alcuni autori contemporanei si dicono delusi dagli scritti degli antichi Padri perché li percepiscono poveri di nozioni tecniche. Di fatto essi ne trascurano il punto di forza essenziale, cioè che essendo dei commenti alle Sacre Scritture questi testi aiutano molto di più il cuore di chi le ascolta nella conversione. Certo è utile anche dedicare del tempo all’insegnamento della dottrina e della cultura, ma è fondamentale tenere sempre ben presente che la cultura deriva dall’esperienza e la teologia scaturisce solo dall’aver vissuto realmente la Liturgia Eucaristica.
Anche in documenti redatti dal Magistero della Chiesa in tempi molto più recenti, ad esempio nelle norme del Direttorio per la Messa dei fanciulli di Paolo VI, si può ritrovare il medesimo approccio ai sacramenti proposto dai Padri della Chiesa.
Questo documento, infatti, sottolinea che il catechismo deve far nascere la fede e l’intelligenza della fede, ma non ha affatto la funzione di spiegare come si svolge la Celebrazione Eucaristica e quali ne sono le sue varie parti. La Celebrazione Eucaristica deve essere prima di tutto vissuta e partecipata. Quindi, se si seguissero queste indicazioni fedelmente, non bisognerebbe chiedere ai bambini che si
preparano alla Prima Comunione di frequentare le lezioni di catechismo in preparazione della Prima Comunione – tale tipo di lezioni, infatti, non sono neanche contenute nei sussidi redatti dalla CEI per il Catechismo. Ciò che, sia il Direttorio sia i sussidi della CEI propongono e che i bambini partecipino alla Messa assiduamente e imparino come vivere nel quotidiano quanto ascoltano. Per far ciò non devono ricevere alcuna spiegazione preliminare, la spiegazione deve avvenire dopo che avranno ricevuto il sacramento. Ora noi, avendo conosciuto le catechesi mistagogiche, ci rendiamo conto che la riforma proposta dal documento di Paolo VI voleva di fatto essere un ripristino di questa antica usanza. Quindi anche per Paolo VI e per la CEI i sacramenti non devono affatto essere spiegati prima di amministrarli.
Per tanto, se applicassimo correttamente le disposizioni del Magistero della Chiesa, anche per noi oggi il primo passo dovrebbe essere l’assidua frequentazione della Celebrazione Eucaristica e la relativa formazione necessaria per poter vivere una vita cristiana autentica, in un secondo tempo l’ammissione al Sacramento e, infine, solo dopo averlo effettivamente ricevuto, la relativa esplicazione del significato del sacramento arricchendo così realmente l’esperienza di quanti l’hanno ricevuto.
Questa è una modalità di fare evangelizzazione molto meno invasiva rispetto a quella in uso oggi che prevede di tenere delle vere e proprie lezioni per far apprendere a chi ascolta delle nozioni e dei concetti apparentemente astratti. Al tempo stesso, però, essa è molto più coinvolgente, perché riattualizzando l’esperienza concreta di coloro che ascoltano attraverso la risonanza interiore tiene maggiormente alta l’attenzione e favorisce un apprendimento più efficace. Questa maggiore attenzione è data anche da una altra dinamica, ovvero quella per cui se l’ascoltatore sente parlare di una sua esperienza personale automaticamente si percepisce come centro del discorso e quindi presta tutta l’attenzione all’oratore, se, invece, il relatore, o il predicatore, enuncia concetti astratti dopo un determinato tempo fisiologico l’attenzione crolla. L’aspetto fondamentale di tutte queste considerazioni è però che i Padri della Chiesa nel praticare quest’approccio educativo di fatto, non facevano altro che essere fedeli alla Parola di Dio perché è Dio stesso che, nel momento in cui chiama il catecumeno alla sequela, lo mette al centro delle sue attenzioni e gli chiede di fare la stessa cosa; quindi colui che tiene un’omelia a dei catecumeni, se vuole che essa sia davvero conforme alla volontà di Dio, in nome del quale sta parlando, è tenuto a mettere al centro del suo discorso i catecumeni che lo stanno ascoltando e
parlare loro dell’esperienza che hanno fatto di incontro con Dio nei sacramenti che hanno appena ricevuto.
Ecco come veniva concepita, in modo notevole, la formazione dei cristiani maturi all’epoca dei Padri della Chiesa! Tutto questo, poi, traeva origine dai culti misterici, dei quali la Chiesa antica aveva addirittura adottato il vocabolario. Ma, se prestiamo attenzione, ci accorgiamo che questo linguaggio arriva fino a noi: basta pensare alla formula pronunciata dal sacerdote all’inizio della liturgia penitenziale durante la Celebrazione Eucaristica: “Per celebrare degnamente questi misteri …”. Dunque è stupefacente che noi quando leggiamo gli scritti dei Padri della Chiesa, non riusciamo a capire, senza un’opportuna spiegazione preliminare, il concetto di “mistero tremendo” ricorrente in questi scritti. Certo oggi non sappiamo più che questo concetto fa riferimento al linguaggio dei culti misterici antichi. Questo però dovrebbe servirci solo per osservare come la Chiesa antica abbia saputo adoperare molto abilmente un vocabolario non proprio, ma efficace ed attuale per il tempo in cui operava, perché derivante da un contesto come quello dei culti misterici molto diffusi in quel periodo storico. Venendo ai tempi recenti, invece, è giusto evidenziare come il Vaticano II per uscire dall’impianto medioevale derivante dalla Filosofia Scolastica (particolarmente dal sistema filosofico di San Tommaso d’Aquino il quale, nei suoi scritti, definiva i sacramenti come “causa”, o, più precisamente come “causa della grazia” o “causa della salvezza”), che era, ormai considerato una concezione propria di un secolo particolare e non più efficace nell’epoca contemporanea, decise di reintrodurre, appunto, l’interpretazione antica dei sacramenti come “segno”. Quindi, oggi, dopo il Vaticano II, eliminata la concezione del sacramento come “causa”, si adotta a pieno titolo la definizione dei sacramenti come “segno”.
In questa nuova definizione dei Sacramenti vi è sicuramente un’allusione alla definizione del sacramento come “mistero”, ma solo un’allusione. Questa scelta fu attuata soprattutto perché conservare la definizione del sacramento come causa poteva risultare molto pericoloso per la pastorale. Infatti affidarsi all’idea che un sacramento funzionava comunque, era sufficiente amministrarlo, portava ad una pastorale ospedaliera molto inquietante, per cui l’unico fine nell’avvicinare un malato era amministragli i sacramenti e non cercare di portarlo effettivamente a Dio. In quest’ottica si amministrava l’unzione degli infermi senza interrogarsi sullo stato d’animo con cui l’ammalato riceveva questo sacramento; sappiamo infatti che solitamente quando si è ammalati, si ha un po’ la sensazione che Dio si sia dimenticato di noi. Quindi i cappellani ospedalieri prima del Concilio non si chiedevano affatto se il malato cui avevano amministrato l’unzione degli infermi fosse effettivamente riuscito a ristabilire un rapporto con Dio attraverso una preghiera riappacificata nel suo cuore. Possiamo perciò affermare che, nel periodo preconciliare, ma anche oggi, sono i laici, paradossalmente, ad attuare una pastorale migliore negli ospedali. Questo è dovuto al fatto che, non potendo amministrare i sacramenti, devono per forza preoccuparsi che davvero il malato ritrovi la sua fede in Dio.
Dunque, dicevamo, il sacramento va lasciato all’esperienza concreta del rito. Dovreste, ad esempio, provare a pensare quanto sia importante nell’esperienza del rito dell’unzione degli infermi fare riferimento alla presenza degli angeli e degli arcangeli, che, secondo quanto crediamo, in quel momento sono attorno al letto dell’ammalato e prendendo la sua anima la portano in Paradiso davanti a Dio. Questo aspetto è davvero importante perché noi sappiamo che l’ammalato, quando poi dovesse morire, durante le sue esequie funebri, in chiesa, sentirà ancora cantare degli angeli, degli arcangeli, che lo aiuteranno ad andare verso Dio. Infatti ciascuno di noi ha bisogno di qualcuno che lo guidi verso Dio, e dal momento che, in quel momento non ci sarà nessun altro a poterlo fare allora, per forza, dovranno arrivare gli angeli.
Lo scopo della catechesi mistagogica è far percepire la celebrazione di un sacramento come un’esperienza viva. Questo dovrebbe essere il risultato, ma oggi se proviamo ad immaginare di riprendere le nostre Celebrazioni Eucaristiche con una cinepresa posizionata sull’altare e rivolta verso i fedeli, ci accorgeremmo che non c’è nessuno che dimostri di essere coinvolto in un’esperienza viva; nel migliore dei casi vediamo persone che prestano un’educata attenzione. Di fatto alcune riprese di questo genere sono state fatte e, nell’ultimo numero di Trenta giorni, commentandole, mons. Ranger, segretario della Congregazione per il culto divino, in un’intervista ribadisce appunto che secondo il Magistero della Chiesa post-conciliare i fedeli non devono affatto essere muti spettatori della Celebrazione Eucaristica, ma devono esserne parte attiva attraverso un ascolto vigile, pio e, soprattutto, consapevole! Resta, però, il fatto che nelle nostre chiese parrocchiali noi continuiamo a non vedere affatto questa partecipazione vigile, pia, e consapevole alle Celebrazioni Eucaristiche.
Da queste poche considerazioni si ricavano delle ragioni più che sufficienti per sostenere la necessità prioritaria delle nostre Comunità Ecclesiali di ritornare ai documenti del Concilio Vaticano II e, unitamente, agli insegnamenti dei Padri della Chiesa. A questo proposito vorrei darvi un esempio concreto attraverso un esperienza personale quando, ultimamente, sono entrato, di proposito in una Chiesa nella quale si celebra ancora secondo il rito in vigore prima del Vaticano II, mentre appunto si stava tenendo la Celebrazione Eucaristica. Innanzitutto mi sono subito accorto che l’altare era rivolto contro il muro e così il Sacerdote celebrava dando le spalle all’assemblea dei fedeli quindi, anche per me, era difficile comprendere i vari momenti della Celebrazione Eucaristica. Di certo posso dire che il sacerdote pregava con grande raccoglimento e i fedeli gli rispondevano molto adeguatamente e con convinzione; quindi, la mia prima impressione è stata che quello era realmente il modo adeguato di partecipare alla Liturgia. Però ero decisamente disturbato da qualche elemento improprio che non riuscivo a comprendere esattamente. Solo quando il sacerdote è sceso dall’altare ed è andato in sacrestia e ho visto finalmente l’altare, allora ho capito che mancava la possibilità di vedere l’altare per l’assemblea dei fedeli, quindi non si poteva vedere la consacrazione del pane e del vino. In quel momento ho capito quale sia l’importanza di poter vedere l’altare e ho compreso più chiaramente il significato di alcune affermazioni contenute nella Costituzione liturgica “Sacrosanctum Concilium” del Concilio Vaticano II, che definiscono l’altare come centro della Celebrazione Eucaristica. Ho anche sperimentato, in prima persona che, se si decide di celebrare con le spalle rivolte all’assemblea, automaticamente l’altare cessa di essere il centro della Celebrazione Eucaristica perché non è più possibile vederlo.
Quindi, con un certo rammarico, posso dire che la Costituzione liturgica “Sacrosanctum Concilium” non ha ottenuto i risultati sperati. Questo, però, non vuole affatto dire che è legittimo tornare alle tradizioni precedenti, perché esse erano ancora meno efficaci. Resta comunque il fatto che oggi misuriamo la mancata riuscita della Costituzione Conciliare sopraccitata, confrontando il documentato impatto emotivo che le catechesi mistagogiche suscitavano nei catecumeni della Chiesa antica con l’atteggiamento apparentemente formale e distaccato assunto dalle nostre assemblee dei fedeli durante la Celebrazione Eucaristica. Questo, probabilmente è dovuto anche al fatto che manca l’esperienza emotiva della preghiera intensa del sacerdote stesso, che sicuramente potrebbe essere un elemento facilitante per i fedeli. Ma nelle nostre assemblee non manca solo quest’elemento; oggi siamo anche privi dell’esperienza emotiva della proclamazione adeguata di una lettura biblica. Oggi, per lo più si leggono le letture in maniera educata, modulando il tono, come se non dicessero niente. Invece la modalità corretta per proclamare una lettura biblica dovrebbe essere quasi un martellamento, perché ogni sua singola parola si possa realmente imprimere nell’anima di coloro che stanno ascoltando. Non dobbiamo, infatti, dimenticarci che le letture proclamate durante la Liturgia Eucaristica sono letture dal potere salvifico e vanno lette con un tono adeguato al loro fine; ad esempio con lo stile di p. David Maria Turoldo, che quando leggeva il Vangelo con la sua voce tonante, riusciva quasi ad incidertelo parola per parola nell’anima.
Oggi, in alcuni casi, proviamo ad evangelizzare musicando alcuni testi biblici, ma spesso non teniamo conto che è la musica a doversi adattare al testo biblico e non viceversa, magari utilizzando un ritmo del tutto alieno alle parole del testo. Abbiamo dimenticato che il canto gregoriano delle origini aveva grande pregio di enfatizzare le singole parole di un passo biblico. Questo tipo di melodia avvolgeva le parole come in una sorta di poema; noi, invece, cerchiamo di sistemarle in un ordine diverso dal loro originale e consono alla musica e poi diciamo che abbiamo musicato dei testi biblici come usava fare il gregoriano. Tornando a San Cirillo, abbiamo detto,che con le sue catechesi creava nei suoi uditori un’emozione e un entusiasmo tali che alcuni di essi gridavano e applaudivano così fragorosamente che anche chi era fuori poteva sentire queste reazioni emotive. Questo è documentato da Egeria che afferma di aver sentito di persona le reazioni emotive dei catecumeni che seguivano le omelie di San Cirillo. E noi, oggi, riprendendo alcuni elementi del canto gregoriano antico pretendiamo di evangelizzare recto tono! Forse ho esagerato un po’, ma il mio scopo era far risaltare al massimo l’importanza dello stile utilizzato da San Cirillo e farvi capire con estrema chiarezza che egli si faceva sentire!
Sappiamo molto bene che tutti i grandi evangelizzatori di ogni tempo sono stati tali perchè realmente capaci di persuadere i loro ascoltatori della verità di quanto stavano comunicando loro. Il nostro vero problema oggi è che noi chiediamo la neutralità e l’imparzialità, per questo i nostri predicatori non sono più così convincenti. Emblematico di questo spirito, dal mio punto di vista, è il manifesto del Museo Diocesano che riporta lo slogan: “Cinque anni di fede – nell’arte” di cui ho visto una copia stamattina. Sinceramente ne sono rimasto molto perplesso perchè sono convinto che la fede è davvero un’altra cosa e, allo stesso tempo, mi chiedo se il termine fede inserito nello slogan sia da riferirsi, come sarebbe correttamente, a Dio (sottointeso nella frase), o, se chi ha pensato questo testo lo ha riferito all’arte. Questo slogan, scritto così, rimane comunque decisamente ambiguo! Forse noi, oggi, anche quando siamo nello staff di un museo diocesano, abbiamo paura di proclamare la nostra fede in Dio senza ambiguità. Se l’intento era rimanere assolutamente neutri sarebbe stato benissimo possibile trovare uno slogan perfettamente rispettoso dell’arte senza includervi la parola “fede”, perché questa parola quando viene pronunciata esige un profondo rispetto sia da parte di chi la pronuncia sia da parte di quanti lo ascoltano.
Tornando a San Cirillo indubbiamente dai testi delle sue catechesi mistagogiche traspare un uomo dotato di un forte carisma al punto da essere capace di convincere tutta la gente di Gerusalemme a seguirlo, in processione, partendo dall’Anastasis, detta anche chiesa maggiore, fino sulle montagne vicine, nei luoghi dove Cristo aveva compiuto i gesti significativi della sua vita terrena, per proclamare lì il brano di Vangelo che ad essi riferiva. Ma, come abbiamo già ricordato, egli non si fermava a questo, riusciva anche a persuaderli a tornare nella basilica da cui erano partiti per celebrare la Liturgia delle Ore e, al suo termine, recarsi su un altro monte per proclamare un altro brano del Vangelo! Sicuramente le persone che lo seguivano saranno state stanche e affamate quindi avranno desiderato andare a casa propria per mangiare e riposarsi, ma rimane il dato storico che tutti, nonostante le loro condizioni di stanchezza fisica, seguivano San Cirillo, perché, servendosi dell’approccio mistagogico, riusciva ad utilizzare parole convincenti e fortemente persuasive.
L’opera compiuta da San Cirillo è stata a tal punto determinante per tutta la Chiesa che anche a Roma è stata ricostruita la planimetria di Gerusalemme, ricreando delle stazioni quaresimali fedeli, per quanto possibile, a quelle edificate da San Cirillo. Inoltre sappiamo, per certo, che dalla sua pastorale delle processioni verso i luoghi che avevano visto la vita concreta di Gesù, è nato l’anno liturgico. E noi invece continuiamo a gestire l’anno liturgico come se fosse una semplice alternativa all’anno civile. Esemplare in questo senso è il giorno 25 aprile, che per l’anno civile italiano è la Festa della Liberazione mentre per l’anno liturgico è la Festa dell’Apostolo San Marco. Il nostro punto di vista su questa delicata questione potrebbe essere riassunto più o meno così: l’anno liturgico ha le sue feste come l’anno civile. Invece ai tempi di San Cirillo, quando si celebrava una memoria o una festa indicata nel calendario liturgico, tutti i cittadini di Gerusalemme interrompevano le loro attività e, con lui, si recavano su un determinato monte per ascoltare un brano del Vangelo e il relativo commento che riferiva a quella festa.
Certo il linguaggio della mistagogia è davvero particolare, ma è il linguaggio che ha dato origine all’anno liturgico, alle stazioni, alle feste, alle catechesi e, infine ma non meno rilevante, ha creato le chiese che oggi possiamo ammirare sui luoghi dove sono accaduti i fatti narrati del Vangelo. Dobbiamo assolutamente ricordarci che esso non è un linguaggio puramente monastico, anche se San Cirillo vescovo di Gerusalemme che lo ha creato, dimostrando un grandissimo senso pastorale, da giovane fu monaco. Alla fine potremmo concludere dicendo che quando un ottimo monaco diventa vescovo compie anche delle azioni pastorali davvero efficaci. E’ altrettanto vero che il linguaggio della mistagogia è un linguaggio arcaico e noi oggi stiamo semplicemente tentando di riscoprilo, ma non sempre ci riusciamo con efficacia. Al termine del mio intervento, però, ciò che sinceramente mi auguro è di essere stato capace di suscitare in voi il desiderio di andare in una biblioteca ben attrezzata e chiedere al bibliotecario di turno di darvi una copia delle catechesi di Cirillo perché possiate leggere, in prima persona, queste opere davvero notevoli.
Sarei altrettanto felice e lusingato di sapere che, grazie a queste mie riflessioni, avete rivolto la vostra attenzione agli scritti di Sant’Ambrogio o a quelli di Sant’Agostino.
Ciò che veramente conta, da qualunque punto si decida di iniziare, è decidere davvero di cimentarsi con questi grandi testi scritti dai nostri Padri della Chiesa.
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Lezioni tenute da mons. Enrico Mazza il 23 e 30 ottobre 2006.