giovedì, dicembre 30, 2021

Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia, di Jean-Paul Hernández

 

Lo spazio sacro

come kerygma e mistagogia

di Jean-Paul Hernández



Scrive san Giovanni Damasceno: «Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostragli la decorazione di cui è ornata, e spiegagli la serie dei quadri sacri».[1] 
L'interesse per il patrimonio artistico cristiano è uno dei fenomeni di massa più sorprendenti negli ultimi anni. La comunità cristiana sta iniziando a cogliere questo «segno dei tempi» come un movimento dello Spirito che parla alle Chiese e le rinnova. Le masse di turisti che entrano nelle nostre chiese sono una inattesa occasione di annuncio, ma esse ci colgono impreparati. Nasce allora una sfida per ripensare l'annuncio e l'accompagnamento nella fede. Il presente articolo si radica in una riflessione sul fenomeno, e fornisce alcuni materiali per nuove forme di annuncio e mistagogia a partire dallo spazio sacro.

1. Il turismo religioso come kairos

Da decenni, il turismo si rivela come fuga da un quotidiano percepito come una «non-vita». Uscire dalla «rete», anche solo per poche settimane all'anno, è diventato in occidente una questione di vita o di morte.
La fitta griglia quotidiana di impegni e di comunicazioni veloci che promettevano all'uomo «di diventare simile Dio» hanno finito per rubare l'uomo all'uomo. L'illusione dell'onnipotenza ha tolto all'uomo ogni resto del suo tempo, della sua vita. Ogni giorno l'uomo vive ciò che non gli appartiene più, una vita che non è la sua vita, un tempo alienato. Il turista è allora un uomo alla ricerca della sua umanità perduta. Un uomo che cerca un tempo suo. Un tempo dove può ritrovarsi. È il tempo altro, il tempo separato, il tempo sacro. Il tempo che non obbedisce più alla logica stritolante di chi deve produrre. In altri termini: il tempo «libero», nel senso più forte della parola.
In questo contesto i monumenti religiosi sono riscoperti come segni di questo «altro mondo», o altro modo di praticare il mondo. Essi diventano delle calamite per i turisti perché parlano di un tempo gestito secondo un'altra logica. Una cattedrale, un monastero, parlano all'uomo di oggi di quella gratuità che chiamiamo bellezza e che è l'espressione di una libertà oggi persa.
Ma negli ultimissimi anni il turismo ai luoghi religiosi aumenta in modo esponenziale non solo come fuga o nostalgia. L'uomo contemporaneo cerca, al di fuori del quotidiano, un luogo e un tempo per interpretare il quotidiano stesso. Il turista è allora un ricercatore di senso. E il monumento religioso è una proposta forte di senso. Anzi, una proposta del «senso forte». Allora l'uomo dal «senso liquido» è irresistibilmente attratto dalla solidità di quelle pietre secolari che hanno attraversato il tempo perché hanno osato scegliere un senso. Quelle pietre così libere da potersi legare per sempre a un senso.
Il turista che entra in una nostra chiesa è spinto consapevolmente o inconsapevolmente da questo interrogativo: «Chissà che in questo luogo non trovi una novità per la mia vita, qualcosa che le dia senso?». In una lettura di fede, potremmo dire che è lo Spirito a spingere il turista in questa ricerca. Il turista al contempo desidera e teme questa scoperta. Perché se davvero trova qualcosa, allora la sua vita cambia. «Cambia»?... o «deve cambiare»... Lui pensa: «deve cambiare». E perciò ha paura. In realtà, davvero «cambia». Perché quando l'annuncio della Buona Notizia tocca il cuore dell'uomo egli non può più rimanere indifferente, egli è già cambiato. E perciò è importante che la comunità cristiana accompagni questo cercatore in questo momento decisivo.
Il turismo, e in particolare il turismo religioso è quel momento di grazia, quel kairos, dove l'uomo è aperto all'annuncio. Anzi, cerca l'annuncio con la sete di chi cerca la propria vita. Lo cerca come senso ultimo dell'opera d'arte che contempla, dove l'opera diventa una proiezione della sua stessa esistenza.
Come in ogni processo spirituale, il desiderio di Dio è contrastato da una serie di resistenze. In primo luogo, il turismo stesso si struttura sempre di più secondo la logica da cui in realtà vuole fuggire. L'illusione di onnipotenza pervade tutti i programmi proposti dagli operatori turistici. Si visita in fretta, tanto per aver visto, per riportare a casa una foto, per poter dire che non mi manca nulla. Chi visita una città o un paese è perseguitato da questo fantasma: il non riuscire a vedere tutto, il passare accanto a qualcosa di importante. Allora il «tempo libero» diventa esso stesso un concentrato delle logiche schiavizzanti del quotidiano: la corsa estenuante dietro all'illusione dell'onnipotenza, la frammentarietà, la superficialità dei rapporti, degli incontri, delle visite. Per paura di mancare qualcosa si manca tutto.
Ma ancora più emblematico è l'aspetto contenutistico delle guide ai luoghi di arte cristiana. Cioè l'interpretazione che la macchina economica del turismo professionale dona al segno forte che aveva attratto il turista assetato di senso. È interessantissimo in questo punto studiare il contrasto fra il momento promozionale dell'impresa turistica e i contenuti reali che sono proposti all'interno dei singoli monumenti. In fase pubblicitaria, l'impresa turistica parla a ciò che davvero muove l'uomo: il ritrovare se stesso, la sete di senso, la nostalgia di libertà e di assoluto. Invece si può analizzare la maggior parte dei contenuti trasmessi dalle guide turistiche come un tentativo di disinnescare l'interrogativo stesso che aveva spinto il turista ad arrivare fin lì. L'interpretazione dell'opera d'arte cristiana si riduce così a una mera descrizione o alla narrazione di una logica puramente umana.
Non solo le guide turistiche evitano per lo più di entrare nell'orizzonte di fede che anima l'opera d'arte religiosa, ma il loro discorso si concentra spesso sulle motivazioni «puramente umane» che stanno dietro al monumento religioso. Seguendo i criteri del giornalismo di mercato, la guida turistica esperta parlerà di quelle motivazioni che provengono dagli ambiti più «sensibili»: il potere, il sesso, i soldi. Così ad esempio, della visita a una chiesa il turista ricorderà soprattutto che la torre è così alta perché costruita per invidia rispetto a una chiesa rivale e che il volto di un bassorilievo è la rappresentazione nascosta di una qualche relazione proibita. Quando il turista si convince che nel fondo anche lo spazio sacro obbedisce alla stessa logica del mondo allora la sua ricerca si interrompe. O allora inizierà a desiderare di cercare altrove, magari penserà già a un altro viaggio, a un'altra vacanza. E così il turismo religioso, da ricerca di assoluto diventa anche lui consumismo eternamente deluso.
Le motivazioni «mondane» non sono certo assenti nella storia dell'arte cristiana, anzi! Ma non ne sono certo il significato. Fermarsi a esse sarebbe come descrivere il tenero abbraccio di una madre al proprio bambino in termini di disfunzioni ormonali o scompensi affettivi della madre. Certo, gli scompensi affettivi attraversano ogni espressione di affetto e ogni relazione, ma non ne sono il significato.
Lo stesso si può dire per le analisi più descrittive che si fermano alla tecnica artistica dell'opera d'arte cristiana. Certo l'opera non si comprende senza uno studio tecnico dei mezzi espressivi. Ma ancora una volta, ciò non costituisce il suo significato. Fermarsi all'analisi tecnica sarebbe come descrivere quel gesto materno in termini di fisica o di meccanica che calcola i moti e le forze dei diversi muscoli in movimento durante l'abbraccio. Certo, un abbraccio è anche questo, ma ciò non è il suo significato.
C'è ancora un terzo riduzionismo da evitare. I capolavori dell'arte cristiana non sono una mera illustrazione di episodi biblici o di verità di fede. Il termine Biblia pauperum non rispetta esattamente l'esperienza creatrice dell'artista cristiano. "Vedere l'arte cristiana come strumentale sostituzione della parola biblica sarebbe come affermare che l'abbraccio materno non è altro che la sostituzione di una parola di affetto. Certo la madre può tenere in gola molte frasi di affetto, ma l'abbraccio non si riduce a queste. L'abbraccio è un evento che supera infinitamente ogni concetto. Così, l'arte cristiana è prima di tutto l'espressione di un'esperienza spirituale. Anzi, la creazione dell'opera d'arte cristiana è in se stessa un'esperienza spirituale. Dando forma visibile al materiale biblico, l'artista rivela la propria relazione con Dio, molto al di là dell'intenzione originaria. Si potrebbe dire che un'opera d'arte cristiana è ciò che rimane di quella intensa esperienza di Dio che è la creazione artistica in materia religiosa. Come mostrano le performances dell'arte contemporanea, l'importante è l'evento creativo; ciò che rimane è invece solo un ricordo. Ma questo ricordo, come insegna la tradizione delle icone orientali, ha un valore quasi sacramentale. È un invito a ritornare a quell'esperienza originaria che ha creato l'opera. È un invito a fare esperienza di Dio.
Urge allora ritrovare una via di senso per l'arte cristiana. Urge reinterpretarla a partire dal contesto di fede che l'ha generata. Urge guardarla come una «preghiera resa visibile». Per dirla con Gadamer, questa «fusione di orizzonti» (fusione fra l'orizzonte della comunità di fede committente e l'orizzonte del fruitore odierno) è la conditio sine qua non per un'autentica ermeneutica dell'arte cristiana.
L'arte cristiana è quel tentativo di «gettare davanti agli occhi», di «ob-gettivare», un vissuto di fede che vuole aiutare altri vissuti di fede. È la messa in comune di un'esperienza di Dio che vuole essere condivisa. Questa oggettivazione del vissuto di fede non è allora solo annuncio, ma è vera e propria «teologia». E va letta come tale.
L'analisi di un mosaico del quarto secolo è un esercizio simile all'analisi di un testo patristico. L'arte della grande tradizione, come gli scritti teologici del primo millennio, ha il grande pregio di essere una teologia non fatta sulla cattedra universitaria ma nello svolgersi della liturgia. Essa obbedisce all'assioma «lex orandi, lex credendi».
Perciò l'arte cristiana funziona sempre in relazione a una comunità viva, in preghiera. In particolare in una chiesa, le forme geometriche e l'iconografia sono inseparabili dalla funzione liturgica che esse inquadrano. La preghiera liturgica è allora la chiave di lettura privilegiata di molte opere d'arte cristiana. Esse «abbracciano» l'assemblea e in qualche modo fanno parte della liturgia. Allora si può dire che l'arte cristiana è «mistagogia», cioè accompagnamento illuminante per chi partecipa alla liturgia.
Si crea così una circolarità fra la liturgia dei viventi e l'opera d'arte. L'opera d'arte spiega il senso della liturgia ed è al tempo stesso compresa solo a partire dalla liturgia. Nell'analisi di un'opera d'arte si parla del tempo come della «quarta dimensione» dell'arte (oltre alle tre dimensioni dello spazio). È il «tempo della percezione». Un capolavoro rivela i suoi segreti dopo un certo tempo di osservazione. Nell'arte degli spazi sacri della cristianità, è la liturgia questa «quarta dimensione» dell'arte. Solo la comunità orante fruisce pienamente dell'opera d'arte.
Ogni opera è un evento come lo è ogni abbraccio. E al di là degli «scompensi affettivi», della «meccanica dello scheletro», e del «concetto amore», essa è l'apertura a una relazione viva. Ecco il significato dell'opera d'arte cristiana: lo spazio per una relazione viva. O come dice Florenskij dell'icona: «è linea che contorna la visione».[2]-- Il vero capolavoro cristiano è quello capace di immettere lo spettatore in questa visione. Il vero capolavoro cristiano è quello che introduce alla preghiera. Allora esporre il significato di un'opera d'arte cristiana sarà introdurre alla preghiera.
Perciò la modalità stessa in cui si visita l'arte cristiana non è indifferente. Una visita guidata a una chiesa dove la guida stessa non sia un testimone o dove non ci sia un tempo di ascolto meditativo tradisce l'essenza stessa dell'arte cristiana.
Di particolare interesse è l'«arco voltaico» che nasce all'interno di una chiesa fra il turista «lontano dalla fede» e il capolavoro artistico. Questo incontro fra l'inespresso desiderio di Dio e la possibilità di una relazione viva con Dio diventa un nuovo campo teologico a partire dal quale riformulare il kerygma e la mistagogia. Le precomprensioni dei turisti che si scontrano con le opere d'arte, le false immagini di Dio che urtano contro la lettura di fede delle forme artistiche, la capacità evocativa dell'arte come apertura ai molti modi di incontrare Dio... possono diventare il «Sitz im Leben» di una nuova teologia orante e kerygmatica al contempo. In seguito diamo alcune tracce per una teologia dell'arte cristiana che si proponga come nuova mistagogia.

2. La mistagogia dello spazio sacro

Sacro/profano. In molte culture, la distinzione fra «sacro» e «profano» è una delle alternanze fondamentali nell'organizzazione dello spazio e del tempo. Pro-fano non significa altro che «davanti al tempio», cioè «fuori dal tempio». Nella Grecia antica l'area sacra è il temenos, da temnó (tagliare). Fra sacro e profano c'è un «taglio», una cesura che indica un'alterità. Il sacro è «altro», ma nella Bibbia il sacro è soprattutto «Un altro». Per Israele, varcare la soglia fisica del sacro significa prima di tutto varcare la soglia dell'interiorità, «entrare» (anche fisicamente) in quello «spazio del cuore» che è la relazione con Dio. Perciò diventa essenziale che chi entra in una chiesa possa incontrare «un altro» che gli parli dell'Altro. Il popolo della Bibbia sarà portato a superare la cesura fisica fra sacro e profano: nel Primo Testamento Israele e la creazione intera diventano Tempio di Dio, nel Nuovo Testamento il Tempio è il corpo di Cristo e il corpo di ogni battezzato, di ogni «altro».
Creato prima del mondo. Il libro dell'Esodo parla di un «modello» celeste del Tempio, mostrato a Mosè sul monte perché possa eseguirlo sulla terra. [3] E Salomone prega Dio dicendo: «Mi hai detto di costruirti un tempio sul tuo santo monte, un altare nella città della tua dimora, un'imitazione della tenda santa che ti eri preparata fin da principio».[4] Perciò in alcune tradizioni rabbiniche il Tempio esiste «fin da principio», cioè «in principio», «come principio». E così anche la Torà, il Sabato e la Sapienza esistono come il Tempio «prima della creazione del mondo». In altre parole: la Torà, il Sabato, la Sapienza e il Tempio sono la chiave di lettura più profonda della creazione, il suo «principio». Ancora nel VI secolo, Cosma Indicopleuste vede nella struttura binaria del Tabernacolo di Mosè (Tenda del Convegno) il modello secondo cui il Creatore ha distinto il cielo e la terra. L'autore alessandrino scrive: «È secondo la figura del tabernacolo costruito nel deserto da Mosè che Dio fece l'insieme dell'universo in due spazi».[5] Molti esegeti evidenziano come lo stesso racconto della creazione (in Genesi 1) suppone una struttura architettonica che ricalca la costruzione del Tempio. Oggi, il turista che entra in una chiesa entra alla ricerca di ciò che è originario, di ciò che sta «in principio».
Nella Genesi, il primo racconto della creazione si conclude con il sabato, scopo ultimo di tutta l'attività creatrice di Dio.[6] Nel sabato finalmente l'uomo e Dio possono stare «faccia a faccia» e «riposare» (restare) insieme. È il giorno «libero», memoria della libertà regalata da Dio dopo la schiavitù dell'Egitto. È nello spazio sacro che il turista può comprendere il senso stesso del suo «tempo libero». Tutta la creazione è un cammino in sette tappe verso questo tempo libero.
Rivelazione della creazione. Nella sua struttura e nella sua decorazione, il Tempio deve richiamare l'intera creazione, perché è il luogo dal quale si comprende l'intera creazione e che «comprende» l'intera creazione. Si va nel Tempio per riscoprire che tutta la creazione è Tempio, cioè luogo per incontrare Dio. Quando il salmista dice: «Quanto è grande il tuo Nome su tutta la terra»,[7] sta descrivendo tutta la terra come quel luogo dove si può invocare il Nome di Dio come lo si invoca nel Tempio.[8] Quando Ezechiele vede il cielo aperto e «il carro del Signore»,[9] si apre su di lui una struttura spaziale ben precisa: la semisfera celeste che si posa sul cubo terrestre. È la Merkabah, che richiama il Tempio a pianta centrale e che coincide con la creazione intera. Perciò già nel primo secolo della nostra era Filone di Alessandria poteva scrivere: «La ragion d'essere di ognuno degli oggetti del Tempio è di imitare e di raffigurare il cosmo».[10] Lo stesso filosofo ebraico ribadisce: «Il tempio supremo e vero di Dio è, dobbiamo ritenerlo, il cosmo nel suo insieme»."[11] Analogamente, l'architettura cristiana concepirà la chiesa come immagine della creazione. Nel sec. VII, leggiamo nella dedicazione della cattedrale di Edessa: «Il tempio nella sua piccolezza è simile al vasto mondo, non per le dimensioni ma per il tipo».[12] Anche per Massimo il Confessore, il rito dell'incensazione sta a significare che l'edificio ecclesiale è «forma e immagine dell'intero mondo».[13]
Secondo la spiritualità biblica, il peccato aveva fatto dimenticare all'uomo che tutta la creazione era parola di Dio per lui, che tutta la creazione era incontro con Lui. Nel peccato, cioè nel non vivere le cose come relazione con Dio, la creazione diventa opaca. Chi non ringrazia Dio per le cose, perde il senso delle cose. Allora Dio inventa una nuova creazione, un nuovo giardino, verso il quale conduce l'uomo: è la terra promessa. Il Tempio ne è il simbolo essenziale. Perciò il Tempio nella tradizione ebraico-cristiana è caratterizzato dalla simbologia del giardino ed è spesso decorato con i frutti della terra promessa.
Il «giardino» è una delle immagini che attraversa tutta la Scrittura e che indica un luogo dove poter stare nudi l'uno di fronte all'altro. Descrivere una chiesa come un «giardino» è descrivere la preghiera come quel «luogo» dove posso essere «nudo» davanti a Dio, quel luogo dove posso finalmente essere me stesso, senza maschere, senza paura di essere giudicato. San Francesco d'Assisi e Sant'Ignazio di Loyola diranno che la preghiera è un parlare col Signore «come un amico parla con l'amico».
Capolavoro dell'Artista. Il Tempio è il luogo della Sapienza, cioè dell'arte di vivere. E perciò il Tempio è «l'opera d'arte» per eccellenza, simbolo dell'uomo stesso che è il capolavoro di Dio. Allora il Tempio è quel luogo dove l'uomo si reca non solo per capire la creazione ma anche per capire se stesso. Per «compiere se stesso» e così «compiere la creazione».
La genialità dell'Artista divino consiste nell'aver voluto concludere la sua opera collaborando con essa. Il compimento della creazione passa attraverso l'uomo stesso, creato «a immagine e somiglianza di Dio».[14] Creatura a immagine del Creatore. Cioè creatura capace di creare.
Già il giardino non è semplice natura bensì anche prodotto della cura umana. «Frutto della terra e del lavoro dell'uomo», come il pane che diventa corpo di Cristo. Il giardino è già l'emblema della collaborazione fra Dio e uomo per portare la creazione al suo massimo splendore. Analogamente lo è il Tempio come opera d'arte.
Il trasformare i materiali con Sapienza per costruire il Tempio diventa allora la metafora del «maneggiare» la vita con Sapienza per farne un'opera d'arte. Perciò nella Bibbia, la prima opera d'arte è il Tempio. Secondo il libro dell'Esodo, è per la costruzione del Tempio che Dio concede agli artisti «saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento e rame, per intagliare le pietre e incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro».[15] Il Tempio spiega allora cos'è l'arte: l'immagine di come l'uomo «maneggia la vita».
Storia di liberazione. Il primo utilizzo che Israele fa delle capacità ricevute per la costruzione del Tempio è la costruzione del vitello d'oro (cf. Es 32). Un idolo. Un «dio» che non prende l'iniziativa ma che posso manipolare («maneggiare») come voglio. Con l'arte regalata da Dio per maneggiare le cose, l'uomo pretende di maneggiare Dio. Cioè riduce Dio a una cosa. Questa è la rottura della relazione personale, la rottura dell'Alleanza. Mosè deve allora risalire sul monte per ricevere le nuove tavole della legge. È dopo la sua seconda discesa, che Mosè ordina la costruzione del santuario. Il Tempio è dunque già nella sua origine il segno dell'alleanza rinnovata. Il perenne ricordo del Sinai. Come a dire che l'Alleanza non esiste se non già da sempre rinnovata. Già da sempre capace di inglobare l'idolatria.
Perciò il Tempio ebraico e poi cristiano è caratterizzato dalla simbologia del «Monte dell'Alleanza». «Salire» al Tempio è salire sul Sinai.
Nelle chiese cristiane, sarà in particolare l'altare (spesso sopraelevato) il «monte» sul quale l'Alleanza è rinnovata. Il luogo di incontro con un Dio sempre pronto a rinnovare l'Alleanza infranta.
La vocazione stessa di Mosè (l'episodio del roveto ardente) è situata sull'Oreb (altro nome per il Sinai). E si conclude con le parole di Dio a Mosè: «Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte».[16]. Le parole «servire Dio» sono un'espressione tecnica che richiama il culto al Tempio di Gerusalemme. Il Sinai è già visto qua come la vera identità del Tempio. Stare nel Tempio («servire Dio») è stare sul Sinai. Il Tempio è allora quel «segno» mandato da Dio per ricordare l'uscita dall'Egitto e sostare sul monte santo. O meglio: per ricordare l'uscita dall'Egitto e dunque stare sul monte santo. Si potrebbe dire: il Tempio è il «sacramento» del Sinai. Non a caso, Mosè ascolta queste parole dopo che si è «velato il viso».[17] Questo velo sulla faccia impedisce di guardare Dio (sarebbe una bestemmia), ma permette di ascoltarlo. Ed è il primo modello materiale della «tenda». Prostrandosi a terra e ricoprendo la sua testa con il velo da beduino, Mosè «costruisce» la prima «Tenda del convegno», prefigurazione del Tempio. Luogo per imparare a passare dalla smania del vedere alla capacità di ascoltare.
Questa «montagna sacra» è il «luogo dove il cielo tocca la terra». Il Tempio è allora questo punto di contatto fra cielo e terra. Questa «scala di Giacobbe» dove salgono e scendono gli angeli.[18] È il luogo dove si apre il cielo. La pietra che Giacobbe erige a base di questa scala del cielo è una delle prefigurazioni più suggestive di ogni chiesa. È una pietra scelta che Giacobbe unge (consacra) perché diventi «memoria» e «casa di Dio». «Questa pietra che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio».[19] Scrive Florenskij: «La Chiesa è la scala di Giacobbe, e dal visibile essa eleva all'invisibile; ma tutto il santuario è il luogo dell'invisibile, il terreno separato dal mondo, lo spazio non di questo mondo. Tutto il santuario è cielo».[20]
L'aprirsi del cielo coinciderà nella storia d'Israele con il continuo rinnovarsi dell'Alleanza di cui il Tempio è memoria. L'aprirsi del cielo per Giacobbe e i suoi figli è l'alternanza infinita fra tradimento e perdono. Perciò il Tempio è annunciato nella storia ebraica già all'inizio del suo pellegrinare. Appena attraversato il Mar Rosso, Israele prorompe in un canto di vittoria che conclude con queste parole: «Lo [il tuo popolo] fai entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua sede, Signore, hai preparato, santuario che le tue mani, Signore hanno fondato».[21]
Il Tempio è allora non solo lo scopo della creazione ma anche lo scopo della storia. La chiave di interpretazione ultima del pellegrinare umano. Si entra nel Tempio per capire la propria storia, cioè ricordare che il Signore è stato fedele e rimarrà sempre fedele all'Alleanza. Nell'architettura cristiana, la pianta longitudinale della chiesa esprime questo cammino del credente, questo «passare» umano che si unisce col «passare» divino. La tradizionale bipartizione fra navata e presbiterio (o «santuario») è sottolineata già nei primi secoli da cancelli che la tradizione orientale arricchirà. Questa cesura esprime ulteriormente l'importanza del «passaggio». L'intero edificio è un «pellegrinaggio verso il futuro».
Vuoto dove Dio parla. Sul Sinai, si passa dall'idolo al Tempio, dal «voler vedere» all'ascoltare. Ma la differenza non è solo formale, L'idolo è di oro massiccio. È «pieno». Egli cerca di attirare gli sguardi su di sé. Il Tempio è invece una struttura fondamentalmente «vuota». Un luogo dove posso solo ascoltare ciò che è «oltre». Un luogo che rimanda ad «Altro» da sé. Perché «pieno» è solo Dio.
Nel Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme non c'è niente di simile alla statua monumentale di un divo Augusto né alla statua criselefantina di Athena, ma c'è un vuoto. Uno spazio vuoto fra due cherubini situati ai lati dell'ilastérion che funge da coperchio dell'arca dell'Alleanza.[22]
Davanti a quel vuoto, una volta l'anno, il sommo sacerdote può pronunciare il Nome di Dio, altrimenti impronunciabile. Il Nome che «brucia le labbra come il bacio di un serafino» perché rende Dio presente. E quel vuoto diventa allora il luogo dell'ascolto per eccellenza. Il luogo da dove Dio risponde, dove Egli si rivela. Con una Parola che è un invio. «Io ti darò convegno in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull'arca della Testimonianza, ti darò i miei ordini riguardo agli Israeliti».[23] Il vuoto del Tempio è una vera e propria «pro-vocazione», una chiamata in avanti, una missio.
La rivelazione del Dio biblico ha la fragilità di una parola: non appena pronunciata essa scompare già nel silenzio. Un Dio che passa. Inafferrabile, ignorabile. Ma la rivelazione come Parola ha una forza che la rende unica: chi parla è vivo. È incontrollabile. Chi parla ha già preso l'iniziativa. Il Dio di Israele è «il Dio vivente». E una sola sua parola può cambiare la vita. La sua Parola è sempre vocazione. Una vocazione che nasce dal vuoto.
Gli autori del Nuovo Testamento si confrontano con la possente tradizione ebraica del Tempio e la assumono come categoria importante per dire la Buona Notizia. Dopo il 70, la distruzione materiale del Tempio di Gerusalemme a opera dell'esercito romano di Tito, sarà interpretata nella tradizione cristiana come il passaggio definitivo alla nuova comprensione del Tempio.
Il corpo di Cristo come Tempio. Nel Nuovo Testamento, le caratteristiche del Tempio di Gerusalemme vengono attribuite al corpo di Cristo. Egli è il compimento e la chiave di interpretazione di tutta la creazione. Giovanni scrive: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste».[24] Per i padri della Chiesa, mentre Dio creava il mondo, Egli aveva davanti agli occhi la croce del Figlio. In altre parole: lo stesso amore con cui Dio crea, lo porterà a dare la vita sulla croce.
Tutta la creazione «tende» verso Cristo, come «tende» a diventare Tempio del Padre. Sant'Ireneo spiegherà che durante la messa, sull'altare, portiamo con il pane e il vino la creazione intera affinché attraverso la porta dell'eucaristia diventi tutta corpo di Cristo. Perciò nel Nuovo Testamento, quando Cristo muore, la creazione si oscura. E la terra trema quando risorge, come erano tremati gli stipiti del Tempio quando Dio apparve al profeta Isaia (Is 6).
Cristo è anche il capolavoro per eccellenza. Egli è la Sapienza incarnata, il Maestro. È «il più bello tra i figli di Adamo» (Sai 45). Egli è il massimo della creatività divina perché non staccata dalla creatività umana. Leggendo i vangeli, si ha spesso l'impressione che Gesù, come il Tempio, venga «plasmato», modificato, e anche «sfigurato» dagli uomini. «Maneggiato». L'Ecce homo è ciò che l'uomo ha fatto dell'uomo. Ma la sua risurrezione sarà la massima manifestazione dell'abilità (hokma) divina. Già nella prima Pasqua del Vangelo di Giovanni, Gesù lancia ai Giudei: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».[25] E Giovanni aggiunge: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo».
Come il Tempio, il corpo di Cristo è anche la memoria viva di una storia. Un memoriale che rende Dio presente. Una storia di liberazione e di perdono. Egli prende su di sé il peccato, le divisioni, per offrire l'unità, la riconciliazione. La Lettera agli Efesini descrive il Cristo come 

Colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne [...] per mezzo della croce [...] l'inimicizia.[26]

E come il Santo dei Santi, il corpo di Cristo è la storia di un vuoto che rivela. È la storia di Colui che «svuotò se stesso»,[27] «come un profumo versato»[28] che proprio perché svuotato rivela la sua fragranza e riempie tutto lo spazio.[29] La vita di Gesù è allora quello spazio dove risuona una volta per sempre il Nome di Dio e dove il Padre pronuncia il suo invio. Il Cristo è l'Inviato per eccellenza. Il Sommo Sacerdote, davanti al vuoto parlante del propiziatorio. Leggiamo nella Lettera agli Ebrei:

Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna.[30]

Sommo sacerdote e Tempio diventano uno nella storia di Gesù. Colpisce ancora nel Nuovo Testamento che la vera identità di Cristo sia messa in discussione soprattutto nei dibattiti che hanno luogo nel Tempio. La domanda centrale è dunque di sapere se Gesù è veramente il Tempio. Per rispondere positivamente, Giovanni riprenderà una visione del Tempio di Ezechiele e scriverà: «Ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua».[31] Per Ezechiele quell'acqua che esce dal lato destro del Tempio purificherà tutta la terra.[32] E Germano di Costantinopoli (sec. VI) scrive: «La chiesa è il cielo sulla terra, in cui il Dio che è al di sopra dei cieli dimora e passeggia. Essa è l'antitipo della Crocifissione, della Sepoltura e della Risurrezione di Cristo».
Ma se entrare in una chiesa significa ritrovarsi «nel corpo di Cristo», allora il corpo di Cristo (e dunque il Tempio) è formato da chi «entra nella Chiesa», cioè da chi fa parte della comunità cristiana.
La comunità come Tempio. San Paolo descrive la varietà dei carismi dentro la comunità cristiana come la varietà delle membra di un corpo. E conclude: «Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte».[33]
Sulla via verso Damasco, allorché perseguitava i cristiani, Saulo si era sentito chiedere da Cristo: «Saulo, Saulo, Perché mi perseguiti?». E alla domanda «Chi sei, o Signore?» la risposta era stata: «Io sono Gesù, che tu perseguiti».[34] La comunità cristiana, quella che Saulo perseguitava, è dunque il corpo del Cristo vivente. Si potrebbe dire: ciò che rimane della comunità cristiana non è altro che il corpo di Cristo. Un corpo che il Nuovo Testamento descrive ancora in corso di «edificazione».[35] Quasi che la risurrezione sia un processo ancora non concluso e che passa attraverso la «costruzione» del «nuovo Tempio» che è la comunità cristiana.
Non le mura ma l'ekklesia, l'assemblea dei chiamati (da ek-kaleo, «chiamare da»), è per il Nuovo Testamento il «luogo» di Dio, lo «spazio sacro». Leggiamo nella Lettera agli Efesini: «In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere Tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito».[36] E la Prima lettera di Pietro dichiara:

Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo.[37]

San Paolo aveva già chiamato Cristo «pietra», paragonandolo alla roccia che Mosè colpisce nel deserto per farne scaturire l'acqua.[38] Ma nel designare ogni discepolo di Gesù come «pietra viva» del Tempio, l'autore della Prima lettera di Pietro rielabora la metafora con un ossimoro. La pietra è ciò che nella natura appare meno dotato di movimento, di fertilità, di vita. La pietra è sempre «morta». Il contrasto fra il sostantivo «pietra» e l'aggettivo «viva» crea allora un effetto sorprendente che richiama la risurrezione. Ciò che era morto è vivo.
Ma questa espressione gioca anche con un sostrato aramaico o ebraico. In ebraico, la radice «pietra» (aben) si pronuncia quasi come la radice «figlio» (b'n). Questa assonanza è già conosciuta nell'Antico Testamento e nella tradizione rabbinica. Per esempio Isaia dice a Gerusalemme: «tutta la tua cinta sarà di pietre preziose, tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore».[39] I figli sono le vere pietre della «casa paterna», cioè del «casato». Allora le pietre vive del Nuovo Tempio che è il corpo di Cristo sono i figli. Coloro che con il Figlio (rigettato dagli uomini ma divenuto pietra d'angolo) si sono riscoperti figli infinitamente amati dal Padre. E perciò formano la «dimora» della Sua presenza. All'inizio del sec. II, sant'Ignazio di Antiochia svilupperà la metafora architettonica e scriverà ai cristiani di Efeso: «Voi siete pietre del tempio del Padre preparate per la costruzione di Dio Padre, elevate con l'argano di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito Santo».[40]
Poco prima, l'Apocalisse di Giovanni aveva già compiuto un passo in più facendo coincidere il Nuovo Tempio delle pietre vive con l'intera città nuova, la Gerusalemme celeste (cf. Ap 21). L'amore rende sacro il profano e annulla la distinzione tra Tempio e città. L'intera città degli uomini diventa allora dimora di Dio. Perciò il veggente dell'Apocalisse non vede più nessun Tempio nella nuova Gerusalemme. Ma le sue mura sono fatte «di ogni sorta di pietre preziose». Questa volta tutte le pietre sono preziose, come Cristo. Tutti i figli sono scelti, «cristificati», nell'unico Figlio. Intimamente uniti, mantengono il proprio colore, la propria identità. La loro diversità esalta la bellezza della città nuova. Sorprendentemente nuova.
La descrizione della Gerusalemme celeste nell'Apocalisse è forse la pagina biblica che ha maggiormente ispirato la storia dell'arte cristiana, dai mosaicisti dei primi secoli alla Sagrada Familia di Gaudì. E ciò perché dall'editto di Milano (313) in poi, ogni chiesa costruita è una preghiera in pietra per l'intera città degli uomini.
Il corpo di ogni uomo come Tempio. Le pietre preziose della Gerusalemme celeste formano un altro «ossimoro naturale». La gemma o la pietra preziosa affascina da sempre l'uomo perché appare come una sintesi di pietra e di luce. Vale a dire mette insieme l'elemento più pesante, più «terrestre», che è la pietra, con l'elemento più «etereo», più «celeste» che è la luce. La pietra preziosa funge così da «metafora naturale» dell'unione fra cielo e terra. Ogni pietra preziosa è un «contenitore di luce»; ogni uomo, ogni «figlio», è capax Dei, capace di contenere la luce divina.
Ecco allora perché san Paolo può scrivere: «Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente».[41] A rendere la pietra luminosa è lo Spirito di Dio regalato ai figli: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? [...] Perché santo è il tempio di Dio che siete voi».[42] All'inizio del sec. II, Ignazio di Antiochia scriverà: «Facciamo dunque ogni cosa nella consapevolezza che egli abita in noi, perché possiamo essere suo tempio e perché egli in noi sia il nostro Dio».[43]
Ma san Paolo aveva spinto ulteriormente la metafora per sottolineare la dignità del corpo umano. L'apostolo scrive: «O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? [...] Glorificate dunque Dio nel vostro corpo».[44] La santità del corpo, l'inviolabilità del singolo, il fatto che non appartenga se non a Dio, diventa la base di ciò che nel pensiero cristiano sarà la dignità di ogni singola vita.
Ma parlare del corpo come Tempio richiama altre due dimensioni. Il corpo è prima di tutto l'espressione della finitezza dell'uomo. Il suo «con-fine», il suo limite naturale. Il «perimetro» secondo cui è «disegnato». Lo spazio non che egli «occupa» ma che egli «è»; e che lo rende unico. Allora dire che il corpo è Tempio di Dio è riconoscere il proprio «confine» come pienamente voluto da Dio. Essere una creatura limitata non è allora una menomazione ma è un essere scelto e desiderato da Dio. Perché scegliere vuol dire limitare. E Dio crea scegliendo. Perciò il limite è il ricordo concreto della scelta fatta dal Creatore. Il corpo dell'uomo è il ricordo concreto di un Dio che lo ha scelto. Essere «Tempio di Dio» vuol dire non essere Dio e al tempo stesso essere scelto da Lui come abitazione prediletta. Quando l'uomo vince la tentazione di «essere Dio» e si scopre «scelto da Dio», allora è pieno di luce, «prezioso».
L'altra dimensione richiamata dal corpo è quella della temporalità. Il corpo è la sedimentazione della storia personale di ciascuno. La sua memoria viva e visibile. Allora chiamare il corpo «Tempio di Dio» significa riconoscere la storia di ogni singolo come luogo della piena presenza di Dio. Non solo la storia di Israele o del popolo di Dio è rivelazione di Dio ma anche il tempo vissuto da ogni singolo. È nel tempo che la verità si rivela. Possiamo dire che nella Bibbia, il tempo è Tempio. Il tempo «dice» Dio.
Chi visita una chiesa sarà allora aiutato a capirne il significato, nella misura in cui sarà aiutato a ricordare la propria storia. La storia del visitante in dialogo con lo spazio sacro diventa allora un luogo di rivelazione.
Oltre all'analisi dello spazio sacro in quanto tale, è importante fermarsi su alcune strutture ricorrenti che articolano la sua geometria e che sono esse stesse sostegno al kerygma e alla mistagogia.

3. La geometria mistagogica

La basilica. Nell'antichità pagana la basilica è un edificio civile, per lo più affacciato sul foro. Esso permette in caso di pioggia il proseguimento delle attività politiche e commerciali che si svolgono sulla piazza pubblica. Dopo il 313 i cristiani assumono questo modello per i loro luoghi di culto, prima di tutto per non riprendere il modello del Tempio pagano, cioè per distanziarsi dalla religiosità circostante.
La basilica è un modello alquanto «laico». È semplicemente la riproduzione coperta della «piazza». Per i primi secoli cristiani, scegliere di celebrare «in basilica» è come voler «celebrare in piazza». L'incontro con il Dio incarnato avviene li dove si parla di politica e dove si sbrigano gli affari.
Eppure il nome «basilica» proviene in realtà dalla parola basileus che in greco significa «re», o «re-giudice». Prima di essere la «piazza coperta», la basilica è il palazzo di giustizia, la sede del «re-giudice»: un semplice rettangolo che trova il suo orientamento solo grazie all'aggiunta di un'abside, sede di chi presiede il processo. Ancora in pieno '500 il Palladio potrà ricordare come nelle basiliche degli antichi cristiani «si poneva con molta dignità l'altare nel luogo del Tribunale».[45] Ma chi è questo «re-giudice»? Per i primi cristiani è Cristo stesso.
Entrare nella basilica cristiana, entrare nella liturgia che si svolge in essa, è entrare in un processo, è un essere ammesso al «giudizio finale», L'eucaristia è in effetti anticipazione della fine. Ma la caratteristica di questo processo è che il condannato è il giudice stesso, Nei vangeli, i racconti della Passione mettono in evidenza questa sconvolgente ambiguità del condannato Gesù. Egli è il re-giudice, innalzato sul suo trono che è la croce. Nell'essere condannato dagli uomini compie l'unico definitivo e divino giudizio (da ius-dicere): «dice-giusto» ogni uomo. Un dire che per Dio è sinonimo di fare. Allora è un giudizio che «fa-giusto» ogni uomo. È la giustificazione, la salvezza.
L'eucaristia è un essere ammesso alla presenza del giudice crocifisso e lasciarsi «giu-dicare» (chiamare «giusto») e «giustificare» (rendere «giusto») da lui. Cioè entrare finalmente nella «giusta» relazione con Dio, nella salvezza. E in questo senso la messa è il giudizio più profondo, il giudizio «finale». Quel giudizio che porta l'uomo al suo compimento, alla sua pienezza, al suo «fine».
Il processo storico di Gesù raccontato nei vangeli si prolunga nel cuore di ogni uomo, Come in ogni processo si ascolta l'accusa e la difesa. L'accusatore, il «Satan», non accusa solo l'uomo ma prima di tutto Gesù. L'accusatore cerca di convincere l'uomo che Gesù non è il Cristo, non è il Salvatore. Che il suo nome («Dio salva») è un'impostura; cioè che non è vero che «Dio salva». L'accusatore cerca di far perdere all'uomo ogni speranza di essere salvato. Accusare in greco si dice «dia-ballo» (da cui «diavolo»), che significa anche dividere. L'accusatore divide l'uomo da Dio e l'uomo dall'uomo.
L'altra voce nel processo di ogni cuore è l'avvocato difensore, in greco «Paraclito». È il nome dello Spirito Santo nel Nuovo Testamento. Solo «nello Spirito» possiamo dire «Gesù è il Cristo», Gesù è il Salvatore. Solo lo Spirito permette di vedere in un crocifisso il giudice che salva. Lo Spirito ridona la speranza perché permette di vedere «Dio-salva» nel fondo della morte, sulla croce. «Paraclito» significa anche «consolatore», colui che sta con chi è «solo», colui che rinnova la relazione.
La liturgia eucaristica è il culmine di questo processo perché è un trovarsi davanti al crocifisso. Solo davanti a Lui possiamo distinguere l'accusatore dal consolatore. Solo la croce dice chi è la «voce giusta», «dice il giusto». La croce è l'unico giudizio.
La pianta a croce. Lungo il medioevo la pianta basilicale viene arricchita da un transetto. Appare la pianta a croce. La liturgia eucaristica è in effetti un essere presente davanti al crocifisso per diventare corpo stesso del crocifisso.
Le lettere paoline concordano in questo punto con ciò che la liturgia eucaristica dei primi secoli sottolinea: la trasformazione del pane e vino in corpo e sangue di Cristo non è fine a se stessa ma è finalizzata alla trasformazione dell'intera comunità in Corpo vivo di Cristo. Il compimento della messa non è un rimanere «davanti» a quel «pane», ma è un diventare quel «pane». «Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane» (1Cor 10,17).
Sant'Agostino ricorderà che le parole pronunciate dal ministrante mentre distribuisce la comunione («corpo di Cristo!») non sono solo riferite al pezzo di pane ma anche a colui che lo riceve. Nella liturgia eucaristica «diventiamo ciò che mangiamo» (s. Agostino).
Il disegnare una chiesa con la forma della croce significa allora esattamente questo: descrivere la comunità orante come membra del corpo di Cristo. E descrivere la preghiera dell'assemblea come partecipazione all'unica preghiera vera e propria: quella di Cristo sulla croce. Non a caso per secoli il gesto liturgico più rappresentato dalle catacombe in poi è quello dell'orante, con le braccia alzate. Esso riproduce il gesto dell'uomo della croce. Ma la preghiera della croce è prima di tutto una preghiera fatta da Dio all'uomo.
In effetti il Dio della Bibbia «prega» l'uomo prima che l'uomo preghi Dio. San Paolo riprende l'espressione di Isaia che descrive un Dio supplicante davanti alla durezza del suo popolo, un Dio con le mani alzate: «Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle».[46] Ogni preghiera è allora una partecipazione alla Pasqua del Signore, un'esperienza di «passaggio» e di «passione».
I Padri vedono numerosi precedenti al gesto delle mani alzate che ha ispirato la pianta a croce. Tertulliano ricorda come i pagani stessi pregano con gli avambracci in verticale e così «senza saperlo annunciavano già la Passione di Cristo». In effetti il tempio greco è stato interpretato come una «foresta di avambracci» innalzati in preghiera. Ma è soprattutto l'Antico Testamento che la tradizione cristiana scruta per ritrovare questo gesto. L'episodio più noto è quello della vittoria di Israele su Amalek (Es 17), resa possibile dalla costante preghiera di Mosè, efficace solo se manteneva le mani alzate.
La più antica rappresentazione della crocifissione - un bassorilievo del V sec. sulla porta di Santa Sabina a Roma - rappresenta Gesù in mezzo ai ladroni sul Calvario, dove il gesto delle tre figure coincide in modo sorprendente con quello dell'orante. Inoltre un interessante affresco del sec. IV che si trova nelle catacombe di San Gennaro a Napoli, mostra tre personaggi di una famiglia defunta che forma nel suo insieme il gesto dell'orante, come fosse un solo corpo orante. Questo affresco ci permette di capire la simbologia che sottende la pianta a croce. È l'insieme della comunità che forma un solo corpo arante.
D'altra parte il gesto dell'orante richiama anche l'esultanza della risurrezione. È il gesto della danza, come verrà esplicitato molto più tardi in alcune crocifissioni orientali di cui ancora il Cimabue si fa eco. La pianta a croce ricorda all'assemblea liturgica che essa diventa il corpo risorto del Crocifisso.
Le tappe di un pellegrinaggio. Importante nella simbologia del Tempio cristiano è il numero di campate che scandiscono la lunghezza dello spazio sacro. Il Tempio cristiano è concepito come un percorso, un «pellegrinaggio» che va dalla facciata all'abside, dall'occidente all'oriente.
Nella grande Tradizione, l'abside è orientato a est (appunto «oriente»), luogo dove sorge il sole, simbolo primordiale di Dio. La figura del «Cristo-sole» appare fin dai primi secoli cristiani. Ed è anche da est che il Messia doveva entrare a Gerusalemme e nel Tempio, secondo la tradizione biblica.
Chi entra nella chiesa compie allora un percorso dall'oscurità (l'occidente è dove «muore il sole») alla luce. Ma scopre che il suo camminare verso oriente coincide con un cammino in senso inverso (dall'oriente) già compiuto dal Messia che entra (idealmente dall'abside). Come dice l'Apocalisse, Cristo è «colui che viene». E camminare nella fede è vivere questa sua venuta.
L'uomo crede di camminare per primo verso Dio, ma quando si mette in cammino scopre che Dio ha già camminato per primo incontro a lui. La coincidenza di questi due cammini incrociati è già presente nella teologia della chiesa di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna. Nei mosaici di questa chiesa ravennate la processione dei santi (registro inferiore) va dalla contro-facciata all'abside e coincide con la storia di Gesù (registro superiore) raccontata in pannelli disposti in una sequenza che va dall'abside alla contro-facciata.
Le forme geometriche primordiali. Si tratta in particolare del quadrato e del cerchio, e della loro «impossibile sintesi», l'ottagono. Leon Battista Alberti iniziava nel 1450 il suo trattato De re aedificatoria con un'analisi del quadrato e del cerchio come elementi basilari della grammatica dell'architettura sacra.
Nella tradizione antica e medievale, il quadrato e il rettangolo simboleggiano la terra. Il «mondo» come distinto dal «cielo». Quattro sono i punti cardinali, gli «angoli della terra», gli elementi del mondo nella cosmologia greca. Si parla dei «quattro venti», delle «quattro colonne» che sorreggono la terra. Quattro sono anche le stagioni e altri ritmi della natura.
Il cerchio invece è simbolo del divino. Esso suggerisce spontaneamente la pienezza. Non ha né inizio né fine. È la forma del sole, del movimento delle stelle intorno alla stella polare. Il semicerchio o meglio, la volta, è poi la forma che l'uomo arcaico attribuisce al cielo.
Un cerchio che si iscrive nel quadrato suggerisce l'idea del divino che entra nell'umano. Unendo gli angoli di questo quadrato, e i punti di tangenza fra il cerchio e il quadrato circoscritto, otteniamo una ruota a otto raggi che ci permette di costruire un ottagono. L'ottagono è così la forma di «unione fra cielo e terra». L'ottagono e la stella a otto rami sono già nell'antichità pagana un simbolo del culto solare. Ma per i primi cristiani, l'otto sarà la cifra della risurrezione.
E questo perché nel calendario ebraico il settimo giorno è il sabato e il Cristo risorge «il giorno dopo il sabato». Questo primo giorno della settimana ebraica (la domenica) non lo si chiama più «primo» ma «ottavo» per significare che con la risurrezione siamo in una nuova temporalità. Non ritorniamo più nell'eterno ripetersi della settimana ebraica, ma siamo «nell'ultimo giorno», che non avrà mai fine. Giorno radicalmente nuovo. L'ottagono è allora quell'unione fra cielo e terra avvenuta nella risurrezione. Quella «quadratura del cerchio», cioè quell'«impossibile novità» che solo Dio può compiere. Nell'arte cristiana, rappresentare l'ottagono è allora annunciare che nella vita dell'uomo è possibile una novità radicale come la risurrezione. Perciò otto sono spesso le campate della chiesa, ottagonali sono i battisteri paleocristiani, ma anche alcune chiese dei primi secoli come San Vitale a Ravenna. Più tardi, ottagonale è anche la sezione di molti pilastri gotici, il tamburo di molte cupole rinascimentali e barocche.
I) cielo aperto. Una costante dell'architettura cristiana attraverso le diverse epoche è la rappresentazione dell'unione fra cielo e terra. Nell'Antico Testamento, il Tempio è il luogo per eccellenza dove si assiste all'«apertura del cielo». Così per esempio in Isaia 6, la visione del cielo aperto nel Tempio non è una semplice visione ma è anche un'audizione. Una coincidenza fra il vedere e l'ascoltare, fra la contemplazione e la vocazione. Ancora nell'Antico Testamento, Giacobbe, nella sua fuga disperata per allontanarsi da suo fratello, aveva sperimentato la fedeltà di Dio sotto la forma di un sogno: «una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo: ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa». [47] Per i padri della Chiesa, questa scala di Giacobbe è la prefigurazione della liturgia eucaristica, dove gli angeli «portano il cielo sulla terra e la terra in cielo».
Nel Nuovo Testamento «l'apertura del cielo» è descritta esplicitamente nell'episodio del battesimo di Cristo e meno esplicitamente in tanti altri episodi. Ma «il cielo aperto» che segnerà forse di più la tradizione spirituale e iconografica è quello contemplato nel racconto della lapidazione di Stefano. Il primo martire cristiano fissa gli occhi al cielo ed esclama: «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla sua destra».[48] «Martire» significa in greco «testimone», prima di tutto nel senso di «testimone oculare». E nella Scrittura il martire non è in prima battuta colui che muore di morte violenta ma colui che «vede Dio», o che vede «il compimento della storia», la venuta del Figlio dell'uomo. Un compimento che irrompe già oggi. Per l'autore sacro, Stefano è allora il modello di ogni cristiano che fissa gli occhi sulla venuta del Figlio. Questa contemplazione dona al «testimone oculare», al «martire», un «volto raggiante»[49] e la libertà di donare la vita. Rappresentare il cielo aperto all'interno di un edificio ecclesiale è allora un modo per mettere il credente nella situazione di Stefano. La liturgia, la preghiera della comunità, è un fissare gli occhi sul Figlio, e un diventare «martire» della sua venuta.
L'apertura del cielo è in realtà un tema iconografico e architettonico comune a molte altre civiltà. A Roma abbiamo l'esempio del Pantheon, il cui oculus centrale è una interpretazione concreta di questa «porta del cielo». Esso corrisponde all'archetipo della grotta sotterranea la cui uscita è in alto. Questa grotta primitiva è in molte tradizioni religiose un luogo «iniziatico», un luogo di nuova nascita. Esso richiama in effetti il grembo materno, la cui uscita verso la luce si situa «in alto» (rispetto alla testa del nascituro). Il «rientrare in se stessi», l'esperienza dell'interiorità, è da sempre orientata verso un «rinascere dall'alto», come Gesù dirà a Nicodemo.[50] Non a caso, grandi mistici come Benedetto, Francesco d'Assisi o Ignazio di Loyola scelgono in qualche periodo della loro vita una grotta come luogo di intimità con Dio e di rinascita.
I primi battisteri paleocristiani riproducono questo schema. Essi sono, come dice Agostino, vulva et mater da dove rinasce il neofita. Perciò nella calotta della loro cupola è rappresentato spesso il cielo stellato. Esso riproduce anche l'apertura del cielo della scena del battesimo di Cristo, rivissuta dal neofita. Lo stesso cielo aperto è presente nel catino dell'abside di Sant'Apollinare in Classe, presso Ravenna. Esso sta a interpretare ciò che avviene durante la liturgia eucaristica: il cielo tocca la terra e la trasforma in giardino. Ma il cielo aperto di Ravenna contiene nel suo centro una croce gemmata, cioè una croce vittoriosa. Vale a dire: la croce del Risorto è l'apertura del cielo. O in altre parole: la morte e la risurrezione di Cristo abolisce ogni separazione fra cielo e terra.
Lungo tutto il medioevo, la volta della navata e l'abside sono i luoghi privilegiati della rappresentazione del cielo. La stessa volta gotica interpreta le sue nervature come «la croce che regge la volta celeste». E non a caso le quattro vele gotiche sono spesso decorate di stelle. Si tratta di un nuovo modo di presentare la croce del risorto come unione di cielo e terra, con la chiave di volta che richiama «la pietra scartata diventata testata d'angolo».[51]
Il tardo medioevo e il rinascimento vedono invece lo sviluppo crescente della cupola come nuovo modo di «aprire il cielo». Ciò che Brunelleschi consegue a Firenze nel '400 sarà il modello per i secoli seguenti. Il «cielo barocco» sarà invece un'«apertura all'Infinito» come vediamo già nella chiesa dei Trinitari a Roma, «San Carlo alle quattro fontane». In essa il Borromini, dal 1638 al 1641, aveva costruito una cupola ovale dove giocava con la ripetizione «all'infinito» di forme geometriche che esprimono l'infinito di Dio e guidano lo sguardo in alto «verso la luce». Ma si tratta di un infinito ancora «geometrico». Così come l'Infinito della famosa cupola di Guarino Guarini a Torino (1667). Ancora a Roma, nella chiesa del Gesù, l'infinito del Baciccia è invece un infinito figurativo. Un infinito di tanti «racconti» (figure di santi, angeli, personaggi coevi,...) che formano una sola Storia.

4. Un esempio: lo spazio sacro come spazio della risurrezione nella chiesa di San Salvatore in Chora (Istanbul)

Le chiavi di lettura kerygmatiche e mistagogiche evidenziate fino ad adesso possono applicarsi a numerosi edifici sacri della cristianità.
Un esempio fra tanti è la lettura della chiesa di San Salvatore in Chora (Istanbul), conosciuta soprattutto per il celebre affresco dell'Anastasis.
La navata centrale della chiesa di San Salvatore in Chora, risale ai primi anni del V secolo. Essa fu costruita fuori dalle mura della città, da cui il suo nome Chòra, in greco «campagna» (ma prima ancora «spazio», «posto», «recipiente», «contenitore», da cui «terra»). La nuova cinta muraria di Teodosio II, nel 414, inglobò la chiesa, che mantenne però il nome di «Chora» come richiamo a due mosaici che la decorano: il mosaico del Cristo Chòra tòn zòntón (Cristo, «terra dei viventi»), e il mosaico di Maria Chòra tou Achòrétou (Maria «contenitrice dell'Incontenibile»). Il primo appellativo riprende un tema caro al Nuovo Testamento: il corpo di Cristo «è» la Terra promessa, cioè lo spazio vitale e concreto dove Dio e uomo sono in comunione e dove si compiono le promesse. Il secondo appellativo fa parte delle molte invocazioni mariane a struttura paradossale che raccontano di un Dio diventato uomo perché l'uomo «diventi Dio». La «chiesa di Chora» rappresenta dunque al tempo stesso un contenitore di Dio e una Terra promessa che è Cristo stesso.
Intorno alla struttura del V secolo, l'edificio si allarga in fasi successive fino al sec. XII, in particolare con la costruzione di un doppio nartece e di un parekklesion, o cappella laterale, usata soprattutto per le liturgie funerarie e che conteneva numerosi sarcofagi. Non è allora un caso se l'abside di questo «luogo dei morti» è decorato da uno splendido affresco della discesa di Cristo al regno dei morti: l'Anastasis. Quasi a dire che dall'abside, cioè dall'oriente (luogo da dove arriva la luce), arriva il Cristo per rialzare coloro che stanno in questo luogo di morte. Nella tradizione orientale, la discesa agli inferi (sabato santo) è il culmine della salvezza, e contiene già la risurrezione.[52]
Questo famoso affresco absidale è datato dall'inizio del sec. XIV, come la maggior parte della decorazione attualmente visibile a San Salvatore in Chora. Al centro, Cristo è vestito di bianco, colore che «ricapitola» tutti i colori, simbolo della luce piena che è la risurrezione.
Egli prende Adamo ed Eva per il polso e li fa uscire dalle loro rispettive tombe che richiamano i sarcofagi disposti nel parekklesion, La presa per il polso (e non per la mano) sta a sottolineare l'iniziativa di Cristo. È Lui che prende. All'uomo spetta solo di lasciarsi prendere. Questo tipo di presa all'avambraccio è particolarmente sicura. L'allargamento del carpo e metacarpo funge da freno a un eventuale slittamento della presa. Il Risorto prende con forza. La sua vittoria salva con certezza.[53]
Inoltre questa gestualità corrisponde esattamente a un rito ben noto nella corte imperiale di Bisanzio. Quando un nobile aveva tradito ed era caduto in disgrazia, poteva, dopo una lunga penitenza, essere riabilitato. Nella cerimonia di riabilitazione l'imperatore fa rialzare il nobile in ginocchio prendendolo per il polso. Adamo è qua il nobile «rialzato», cioè «risorto». La parola Anastasis che in greco designa la risurrezione, non significa altro che «rialzata».
Il Cristo fa rialzare i due progenitori e in questo senso fa rialzare tutta la storia umana. Nella sua discesa agli inferi, il Cristo attraversa tutti gli strati della storia e viene a salvare fino al primo peccatore. Il Risorto non solo trasforma il presente e apre un nuovo futuro, ma trasforma anche il passato. Dell'umanità, e di ogni uomo.
Il Cristo di San Salvatore in Chora non si limita a rialzare Adamo, ma Adamo ed Eva, insieme. Facendoli uscire dalle loro tombe, li mette di nuovo in relazione. Cristo «è venuto a disturbare la solitudine del primo peccatore». Egli ricrea così la relazione primordiale fra uomo e donna, come in una nuova Genesi. Solo come relazione «uomo-donna», l'essere umano è «immagine di Dio».[54] La risurrezione consiste dunque nella rinascita della relazione fondamentale, che è la relazione sessuata, immagine della Relazione che è Dio stesso.
Sotto la figura di Cristo, vediamo l'anti-relazione, il divisore. Egli è vittima di se stesso, cioè della morte, divisione per eccellenza nella quale adesso Dio stesso è entrato. Perciò il divisore è adesso legato, vinto. Ha perso il potere. Intorno a lui scorgiamo tutti i suoi arnesi, simboli delle sue tante strategie che legano, imprigionano, torturano. Ma adesso non possono più vincere.
Le due ante della «porta degli inferi» stanno sotto i piedi del Cristo. Esse formano idealmente una X (Chi), prima lettera greca del nome di Cristo. Ma queste due ante di legno coincidono anche con le due travi della croce, legno che ha permesso al Cristo di entrare nel regno della morte.
I personaggi dietro ad Adamo sono, in alto, Giovanni il Battista e più in basso Davide e Salomone, ambedue con la corona regale. Si tratta di tre «precursori» di Cristo. Dietro a Eva, col bastone, vediamo Abele il pastore.
Il Cristo è circondato da un alone di luce a forma di mandorla, decorata di stelle. È il simbolo del cielo che entra negli inferi. Con l'Incarnazione, la Terra era diventata cielo. Con la Pasqua del Cristo, anche gli inferi diventano cielo.
I tre strati concentrici di questa forma sono un'allusione alla Trinità. Quasi a dire che la discesa agli inferi e la risurrezione è la massima manifestazione della Trinità. E che della Trinità non possiamo vedere che Cristo, e Cristo risorto. Dirà Massimo il Confessore: «Ecco il grande mistero nascosto. Egli stesso ha reso visibile il fondamento più intimo della bontà del Padre».[55]
La forma della mandorla allude allo scudo del vincitore, che l'iconografia antica mette in verticale dietro al condottiero dell'esercito vittorioso. Gesù Cristo è il vincitore della morte. E la mandorla sta a ricordare questa vittoria, questa Buona Notizia. Nell'antichità pagana, la parola euangelion era usata precisamente in contesto militare come annuncio di una vittoria decisiva.
La forma della mandorla richiama anche l'olio di mandorla col quale si ungevano i sovrani nell'oriente antico. E «Cristo» è precisamente 1' «Unto». I Padri commentano questa simbologia ricordando anche quanto la scorza della mandorla sia dura e quanto il suo interno sia squisito. Nello stesso modo, il mistero cristiano ha una «scorza» difficile da aprire, ma una volta dischiuso è il migliore dei sapori.
Un ulteriore significato della mandorla nell'iconografia cristiana è il richiamo alla pupilla del felino, che vede nella notte. E in questo è il simbolo dell'occhio della fede. Allora l'affresco di San Salvatore in Chora è un invito a fissare il Cristo risorto sulla «retina del cuore» così da poter vedere attraverso le notti della vita.
Le rocce rappresentate sullo sfondo si chiudono leggermente in alto secondo uno schema comune anche all'iconografia orientale del battesimo di Cristo. Si tratta di un richiamo alla grotta primordiale, al «ventre della terra». In definitiva, all'utero materno. La risurrezione è allora una nuova nascita, un «rinascere dall'alto» come Cristo indica a Nicodemo. La risurrezione di Cristo non è il ritorno di Cristo alla vita di prima, ma la «presa» di tutta l'umanità nella sua nuova nascita.
Infine sul cielo blu possiamo leggere in greco il titolo dell'opera: H ANASTASIS (la «risurrezione»). Le altre quattro lettere in basso corrispondono alla prima e ultima lettera delle parole Iesous Christos (IS – XS), È la proclamazione di fede del primo cristianesimo: «Gesù è il Cristo».

5. Altre piste

Questo articolo ha voluto offrire alcune piste per un discorso kerygmatico e mistagogico nei luoghi sacri cristiani. In realtà molti altri aspetti dell'architettura e dell'arte figurativa cristiana potrebbero essere approfonditi nella stessa ottica. Basti pensare alla densità simbolica e teologica di elementi come: la porta, l'altare, la pietra angolare (o chiave di volta), la croce e il cristogramma, il ruolo della luce... Senza pretesa di essere esaustive, queste pagine hanno voluto anche mostrare quanto «fare teologia a partire dall'arte» possa aprire nuovi orizzonti alla stessa teologia. In particolare, nel dover pensare un annuncio a chi visita una chiesa, il pensiero teologico si ritrova «costretto» a ripartire dal kerygma e a tematizzare subito la preghiera e i sacramenti come fruizione della stessa opera d'arte.


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NOTE

* Il contributo offre la sintesi del corso «Chiavi di lettura kerigmatiche nella storia dell'arte cristiana» tenuto dal prof. Hernández dal 20 febbraio al 27 marzo 2010 presso la FTER all'interno del Laboratorio di iconografia, organizzato in collaborazione con l'associazione Icona. Il contenuto di quest'articolo viene ripreso e ampliato nel seguente libro dell'autore: J.-P. HERNÁNDEZ, Il corpo del Nome. I simboli e lo spirito della chiesa madre dei gesuiti, Pardes, Bologna, di prossima pubblicazione (nov. 2010).
1 GIOVANNI DAMASCENO, Difesa delle immagini sacre 1,9: PG 94,1240a-b.
2 P. FLORENSKIJ, Le porte regali, Adelphi, Milano 2001, 53.
3 Cf. Es 25,9.40.
4 Sap 9,8.
5 Cos INDICOPLEUSTE, Topografia cristiana: SC 159,28.
6 Gen 2,2ss.
7 Sal 8,2.
8 Vedi anche Salmi 29 e 104.
9 Ez 1,1-28.
10 FILONE ALESSANDRINO, Antiquitates Judaicae 111,7,7.
11 FILONE ALESSANDRINO, De Monarchia 11,2.
12 Sogitha, 4.
13 MASSIMO IL CONFESSORE, Mistagogia, 2.
14 Cf. Gen 1,26.
15 Es 31,3-5.
16 Es 3,12.
17 Es 3,6.
18 Cf. Gen 28.
19 Gen 28,22.
20 FLORENSKIJ, Le porle regali, 76.
21 Es 15,17.
22 Cf. Es 25,17ss.
23 Es 25,22.
24 Gv 1,3.
25 Gv 2,19.
26 Ef 2,14-16.
27 Fil 2,7. 26 Ct 1,2.
29 Cf. Gv 12,3.
30 Eb 9,11.
31 Gv 19,34.
32 Cf. Ez 47.
33 1Cor 12,27; cf. anche Rm 12,4-5.
34 At 9,4-5.
35 Cf. Ef 4,12.
36 Ef 2,21-22.
37 1Pt 2,4ss.
38 1Cor 10,4.
39 1s 54,12-13.
40 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Agli Elesini, 9,1.
41 2Cor 6,16.
42 1Cor 3,16ss.
43 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Agli Elesini, 16.
44 1Cor 6,I9ss.
45 A. PALLADIO, I quattro libri dell'architettura, IV, I.
46 Rm 10,21; cf. ls 65,2.
47 Gen 28,12
48 At 7,55.
49 Cf. At 6,15
50 Cf Gv 3
51 Cf. Sal 117,22.
52 Cf. H.-U. VON BALTHASAR, Teologia dei ire giorni, Queriniana, Brescia 1990.
53 Von Balthasar parla di «apertura forzata della porta eternamente chiusa, mano del Redentore tesa al primo Adamo», cit. in G. MARCHESI, La cristologia trinitaria di Hans Urs von Balthasar, Queriniana, Brescia 1997, 50.
54 Cf. Gen 1,27.
55 MASSIMO IL CONFESSORE, Quaestiones ad Thalassium, 60: PG 90,621a-c.


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Fonte: http://pietrevive.altervista.org/wp-content/uploads/2014/02/Lo_Spazio_sacro.pdf
https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=8994:lo-spazio-sacro-come-kerygma-e-mistagogia


sabato, novembre 27, 2021

L'arte e gli artisti, Card. Paul Poupard


L'arte e gli artisti

Card. Paul Poupard 


L'articolazione della via estetica con la ricerca del bene e del vero, costituisce senza dubbio un cantiere privilegiato della pastorale della cultura, per un annuncio del Vangelo sensibile ai segni dei tempi. La pastorale degli artisti richiede una sensibilità estetica unita ad una non minore sensibilità cristiana. Nella nostra cultura, contraddistinta da un diluvio di immagini spesso banali e brutali, quotidianamente riversate dalle televisioni, dai film e dalle videocassette, un'alleanza feconda tra il Vangelo e l'arte susciterà nuove epifanie di bellezza, nate dalla contemplazione del Cristo, Dio fatto uomo, dalla meditazione dei suoi misteri, dal loro irraggiamento nella vita della Vergine Maria e dei santi (cf. Giovanni Paolo II, Lettera agli Artisti, 4 aprile 1999).
Sul piano istituzionale, una diversificazione e una frammentazione crescenti richiedono un dialogo rinnovato tra la Chiesa e le diverse istituzioni o società artistiche. Dalle parrocchie ai cappellanati, dalle diocesi alle Conferenze episcopali, dai seminari agli istituti di formazione e alle università, questa pastorale promuove associazioni atte ad allacciare un dialogo proficuo con gli artisti e il mondo dell'arte. Le Chiese locali, che talvolta hanno preso le distanze da loro, non possono non guadagnarci a riallacciare rapporti con essi, in luoghi appropriati di incontro.
Sul piano della creatività. Come dimostra l'esperienza, in condizioni politiche sfavorevoli alla cultura vera, che presuppone la libertà, la Chiesa cattolica si è comportata da avvocata e protettrice della cultura e delle arti, e molti artisti hanno trovato nel suo seno un luogo privilegiato di creatività personale. Questo atteggiamento e questo ruolo della Chiesa nei riguardi della cultura e degli artisti sono più che mai attuali, specialmente nei campi dell'architettura, dell'iconografia e della musica religiosa. Chiamare gli artisti a partecipare alla vita della Chiesa equivale ad invitarli a rinnovare l'arte cristiana. Un rapporto di fiducia con gli artisti, fatto di ascolto e di cooperazione, permette di valorizzare tutto ciò che educa l'uomo e lo eleva ad un superiore livello di umanità, mediante una partecipazione più intensa al mistero di Dio, somma bellezza e suprema bontà. Per essere fruttuosi, i rapporti tra fede e arte non possono limitarsi ad accogliere la creatività. Proposte, confronti, discernimento sono necessari, poiché la fede è fedeltà alla Verità. 
La liturgia, a questo proposito, rappresenta un ambiente eccezionale per la sua forza di ispirazione e le molteplici possibilità che offre agliartisti nella loro diversità, per l'attuazione degli orientamenti dati dal Concilio Vaticano II. E importante dar vita ad una espressione indigena propria e, al tempo stesso, cattolica della fede, nel rispetto delle norme liturgiche. 
La necessità di costruire e di decorare nuove chiese richiede una riflessione approfondita sul significato della chiesa come luogo sacro e sulla portata della liturgia. Gli artisti sono invitati ad esprimere questi valori spirituali. La loro creatività dovrebbe consentire lo sviluppo d'iconografie e di composizioni musicali accessibili ai più, per rivelare la trascendenza dell'amore di Dio e introdurre alla preghiera. 
Il Concilio Vaticano II non ha esitato su questo punto, e le sue direttive richiedono un'attuazione permanente: « Bisogna perciò impegnarsi affinché i cultori di quelle arti si sentano riconosciuti dalla Chiesa nella loro attività, e godendo di un'ordinata libertà, stabiliscano più facili rapporti con la comunità cristiana. Siano riconosciute dalla Chiesa anche le nuove tendenze artistiche adatte ai nostri tempi secondo l'indole delle diverse nazioni e regioni. Siano ammesse negli edifici del culto, quando, con un linguaggio adeguato e conforme alle esigenze liturgiche, innalzano lo spirito a Dio » (Gaudium et Spes, n. 62, 4).
Sul piano della formazione. Una pastorale orientata verso l'arte e gli artisti presuppone una formazione appropriata, per cogliere la bellezza artistica come epifania del mistero. I responsabili di tale educazione artistica, in simbiosi con la formazione teologica, liturgica e spirituale, sapranno riconoscere quei sacerdoti e laici cui affidare la pastorale degli artisti, con il compito di emettere, nell'ambito della comunità cristiana, giudizi illuminati e di formulare valutazioni motivate circa il messaggio delle arti contemporanee.
Le possibilità di azione, in questo campo, sono numerose e varie. Associazioni d'artisti, di scrittori, accademie sottolineano il ruolo importante degli uomini di cultura cattolica e possono favorire un dialogo più fecondo tra la Chiesa e il mondo dell'arte. Diverse formule, come la Settimana culturale oppure la Settimana della Cultura Cristiana, uniscono un ritmo continuo di manifestazioni culturali aperte ai più a proposte specificamente cristiane. La formula del Festival o del Premio d'arte sacra, nazionale o internazionale, consente di dare particolare rilievo alla musica sacra come pure al film e al libro religioso.



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mercoledì, ottobre 06, 2021

Schemi funzionali e prospettici di Chiesa Conciliare, a cura dell'arch. Carlo Sarno

 

Schemi funzionali e prospettici di Chiesa Conciliare

a cura dell'arch. Carlo Sarno


" Nella Liturgia esiste come un doppio movimento: quello che porta agli uomini i doni e la vita di Dio, e quello che riporta a Dio l'amore e la lode dell'umanità salvata. Una autentica formazione cristiana deve raggiungere l'uomo integrale, impegnandolo in un processo vitale che lo metta in intima comunione con il Padre celeste, nel Figlio suo Gesù Cristo, per opera dello Spirito Santo. La Liturgia della Chiesa, quando la si viva nella pienezza dei suoi contenuti e delle sue espressioni, è certamente il luogo privilegiato, seppure non unico, di questo divino incontro. In essa il passaggio dal segno alla realtà soprannaturale sommuove tutte le facoltà umane, da quelle sensibili a quelle spirituali, dalle facoltà conoscitive a quelle volitive. Anche la vera arte si colloca, a modo proprio, in questa categoria di movimento vitale che coinvolge tutto l'uomo." Mons. Pietro Garlato.






























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Fonte: L'arte nella vita liturgica della Chiesa, di Mons. Pietro Garlato, relazione alla Consulta dell'Ufficio liturgico Nazionale, 1977.

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