DALLA “CHIESA DOMESTICA” ALLA “CHIESA FAMIGLIA DI DIO”:
LUOGO DEGLI AFFETTI E SPAZIO DI COMUNIONE
di Mons. Franco Giulio Brambilla
Introduzione. La “casa” come metafora della famiglia e della chiesa
I. LA FAMIGLIA COME “CHIESA DOMESTICA”
1. La casa natale: la grande culla
2. La casa paesaggio: lo spazio degli affetti
3. La casa appartamento: il luogo privato
4. La casa universo: la finestra sul mondo
II. LA CHIESA COME “FAMIGLIA DI DIO”
1. La chiesa/famiglia di Dio come generazione
2. La chiesa/famiglia di Dio come comunione
3. La chiesa/famiglia di Dio come fraternità
4. La chiesa/famiglia di Dio come segno visibile
DALLA “CHIESA DOMESTICA” ALLA “CHIESA FAMIGLIA DI DIO”: LUOGO DEGLI AFFETTI E SPAZIO DI COMUNIONE
Introduzione. La “casa” come metafora della famiglia e della chiesa
Il tema generale di questa settimana è il rapporto tra casa e famiglia. Il tema specifico della mia relazione intende mostrare che la famiglia è il luogo originario per aprirsi al senso della chiesa. La famiglia si identifica in modo assai stretto con la casa, perché la casa è il luogo di partenza e di arrivo della famiglia. Così avviene anche per la comunità cristiana. La chiesa è il luogo di nascita della comunità credente, tanto che nella storia c’è stato addirittura uno scambio di termini, per cui si dice “chiesa” l’edificio in cui è convocata la comunità cristiana, allo stesso modo che la casa è lo spazio che fa crescere la famiglia. Nel caso della chiesa c’è addirittura una sovrapposizione di termini: chiesa indica sia la casa della comunità che la comunità raccolta nella sua casa. Solo un poco diverso il rapporto famiglia e casa: non c’è semplice sovrapposizione, ma tra famiglia e casa c’è interscambiabilità. Così, ad es., “fare famiglia” coincide con il “mettere casa”, mentre costruire la (propria) casa viene visto come la promessa per edificare la famiglia. Tra casa e famiglia c’è lo stesso rapporto che intercorre tra promessa e compimento. Ciò che vorrei, pertanto, svolgere è il rapporto chiesa e famiglia: ma lo farò attraverso la mediazione della metafora della casa. La casa è una metafora non solo spaziale, ma anche temporale, cioè non parla solo dello spazio della propria intimità, ma anche fa risalire alla propria origine, e più ancora parla del luogo della partenza per l’avventura della vita, per formare una nuova “casa/famiglia”, in senso proprio o, in quel senso lato, ma non meno reale, con cui ogni uomo e donna partono alla ricerca del proprio destino. Fosse pure quello di non avere una casa propria, o una patria permanente: ma anche questo significato estroverso suppone una nostalgia della casa e della patria. Attraverso la metafora della casa vorrei spiegare perché alla famiglia viene attribuita la dizione di chiesa domestica; mentre la comunità cristiana viene chiamata famiglia di Dio. La prima dizione è stata sovente criticata, perché sembra un modo di dire che toglie alla famiglia il suo carattere mondano, di realtà fondata sulla carne e il sangue, che verrebbe precipitosamente sacralizzata e battezzata. La formula attribuirebbe alla famiglia un’improbabile vocazione ecclesiale e avrebbe un carattere rassicurante e ultimamente consolatorio. La seconda dizione che denomina la chiesa come famiglia di Dio è stata all’origine anche di consistenti programmazioni pastorali, soprattutto quelli che volevano strappare la chiesa da una concezione individualista (la semplice somma di singoli) e che partivano dalla considerazione della chiesa locale per invocarne un’articolazione più familiare. Soprattutto la parrocchia è stata presentata come “famiglia di famiglie” e progetti promettenti, anche in campo italiano, si muovono in questa direzione. Il senso della mia riflessione non è per ora di scendere nei risvolti pastorali della questione, ma di mostrare attraverso lo strumento antropologico della riflessione sulla “casa” come la famiglia sia lo spazio per un’esperienza “domestica” della chiesa che rende possibile alla comunità cristiana di essere sempre più e meglio un’esperienza della chiesa di carattere “familiare”. Naturalmente la corrispondenza non è perfetta, quasi che si possa dire che la famiglia è la chiesa in casa, mentre la chiesa è la comunità di famiglie. Ciò ha un senso plausibile, ma deve preservare anche una differenza decisiva che dice il senso della singolarità della fede cristiana. La chiesa come comunità di famiglie, non può portare ad una “familizzazione” della comunione ecclesiale, quasi che essa sia fondata sulla carne e il sangue: i legami di comunione trascendono i vincoli familiari, pur supponendoli e proprio per questo superandoli e trasfigurandoli. Similmente la famiglia come chiesa domestica non può portare ad un “addomesticamento” della fede, ma piuttosto a un suo prendere casa dentro le relazioni umane, tra marito e moglie e tra genitori e figli. Addomesticamento della fede e familizzazione della chiesa sono i due estremi da evitare, perché si perderebbe il senso dell’analogia. Vorrei suggerire a voi e a tutti coloro che hanno a cuore la chiesa nella sua esperienza di comunione, che proprio la metafora della “casa” ci consente di aprire la famiglia alla chiesa e di radicare la chiesa nelle famiglie, per scoprire che entrambe – famiglia e chiesa – sono a diverso titolo debitrici della vita, e del suo senso vero, all’unico Signore. La “casa” appunto è lo spazio della vita donata, “uscire” dalla casa è necessario per accogliere personalmente la vita e dargli futuro: la casa ci rimanda all’origine della vita e alla chiamata che risuona per ciascuno (così che chi non conosce la propria casa e il proprio padre e madre porta per sempre con sé questa ferita e impiega una vita per scoprire la propria origine); il lasciare la casa dischiude la propria vocazione e mette in moto la ricerca della sua terra promessa. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre…, dice il testo della Genesi: bisogna lasciare il padre e la madre, la propria casa per costruire il proprio destino futuro con altri; non bisogna dimenticare la propria origine, la propria casa perché il futuro non sia immaginato solo come una conquista umana, cioè un frutto del nostro operare, ma per l’aspetto essenziale sia risposta a un dono, il dono della vita e della comunione, che abbiamo ricevuto e che possiamo raggiungere solo nella forma di una libera dedizione. Solo perdendo la vita e perdendola per e con gli altri possiamo ritrovarla (questo è il senso della chiesa!); ma possiamo osare – per grazia – di far questo solo perché qualcuno ha avuto il coraggio di non trattenere la vita per sé ma ha osato donarla (questo è il senso della famiglia!). La famiglia è la grammatica della chiesa come vocazione e comunione, la chiesa è l’opera d’arte compiuta che trova nella famiglia i significati originari per potere spiccare il volo dell’avventura umana, personale e comunitaria. Entrambe sono a servizio della vita dell’uomo e del mondo, perché siano un uomo di comunione e un mondo che è la casa per l’uomo. Per questo la lingua della chiesa non ha paura di usare le espressioni “chiesa domestica” per indicare la famiglia e “famiglia di Dio” per dire lo stile della comunione ecclesiale. Il linguaggio non va censurato o liquidato come se fosse scadente allegoria. Casomai è utile indicare alcune regole perché non si usi tale lingua in modo banale, ma soprattutto, davanti a tante famiglie qui presenti, mi interessa indicare il percorso per cui la vita di famiglia è la scuola della comunione, affinché la chiesa sia la casa che indica lo stile e la vocazione per una vita compiuta. Partiamo dal punto di arrivo a cui siamo approdati lo scorso anno: l’originalità della famiglia, anche in rapporto all’evento che la costituisce (il matrimonio), sta nel fatto che la famiglia rende possibile una nativa condizione di comunione, che è evangelizzante per il fatto stesso di essere vissuta in modo “cristiano”. Il Concilio, infatti, ha affermato: «In questa che si potrebbe chiamare chiesa domestica, i genitori devono essere per i loro figli, con la parola e con l’esempio, i primi annunciatori della fede, e secondare la vocazione propria di ognuno, e quella sacra di modo speciale» (LG, n. 11). L’Evangelii Nuntiandi ritorna sul tema: «Nell’ambito dell’apostolato di evangelizzazione proprio dei laici è impossibile non rilevare l’azione evangelizzatrice della famiglia. Essa ha ben meritato, nei diversi momenti della storia della chiesa, la bella definizione di “chiesa domestica” sancita dal Concilio Vaticano II. Ciò significa che, in ogni famiglia cristiana, dovrebbero riscontrarsi i diversi aspetti della chiesa intera. Inoltre la famiglia, come la chiesa, deve essere uno spazio in cui il vangelo è trasmesso e da cui il vangelo si irradia» (Evangelii Nuntiandi, n. 71). Per non dare – come dicevamo – all’espressione “chiesa domestica” solo il significato di una vaga analogia, è possibile indicare nella famiglia quei tratti che aprono alla scoperta della fraternità evangelica e, reciprocamente, illuminare i tratti della famiglia a partire dagli elementi significativi della comunità cristiana, intesa come il luogo di una particolare esperienza di comunione. Tra la famiglia e la chiesa c’è una particolare ragione di analogia, perché la famiglia è quella comunità che istruisce, all’interno del rapporto sponsale e della generazione, sulla responsabilità che ogni uomo deve avere dinanzi alla vita, scegliendola come un bene promettente per sé e per gli altri; e la comunità cristiana allarga e porta a compimento il senso della vita imparato in casa per far ascoltare la chiamata che viene da Dio, e per rendere possibile l’incontro con il Dio di Gesù Cristo che ha voluto che lo accogliessimo in una comunità credente, segno reale per la vita del mondo. Da un lato, i genitori insegnano ai figli ad aprirsi alla vita, ad assumerla come un dono, a ricercarla come una vocazione, a denominare e ad esprimere questa vocazione col nome più grande e più alto (Dio Padre!), un nome che i genitori trasmettono con i doni stessi che consegnano ai figli. Dall’altra parte, il compito della comunità cristiana porta a compimento questa vocazione iscritta originariamente nella famiglia: fa diventare la risposta alla vita, la scelta della propria vocazione, un fatto assunto personalmente a servizio degli altri, di nuove famiglie, della chiesa, della società, nella sequela al Signore Gesù. A questo passaggio abbiamo già alluso lo scorso anno nella forma di un’intuizione da sviluppare. Quest’anno vorrei svolgere l’aspetto allora solo proclamato. Come ho annunciato, mi lascio guidare dalla metafora della casa per aiutare a comprendere le regole di questo passaggio decisivo per la vita di ciascuno e, in certa misura, di tutti e della società intera. Con l’augurio che tutte le famiglie edifichino una casa che sia “chiesa domestica”, perché tutte la nostre comunità siano capaci di essere la chiesa come “famiglia di Dio”
I. LA FAMIGLIA COME “CHIESA DOMESTICA”
Prendiamo dunque avvio della simbolica della casa per tracciare il sentiero che va dalla famiglia come luogo degli affetti alla chiesa come spazio della comunione. La “simbolica” della casa ha come premessa una “topologia” e una “semantica” della casa: una topologia della casa delinea tutti i modi con cui l’uomo, nella sua continuità e discontinuità con l’animale, ha abitato raccogliendo il mondo presso di sé, dalla casa guscio, nido, caverna, capanna, granaio, alla casa rotonda, rettangolare, alla villa, castello, palazzo, condominio, grattacielo; una semantica della casa definisce tutte le funzioni e i significati dell’abitare, che vanno dal raccogliere il mondo nel proprio angolo (“la casa è il nostro angolo del mondo, il nostro primo universo”) fino ad essere la porta aperta verso il mondo, la prima protesi del corpo, il proprio corpo allargato. Se già questi primi due livelli del discorso sulla casa sarebbero affascinanti,1 noi ci riferiamo ad un terzo livello che chiamerei una simbolica della casa, cioè dove con le immagini della casa procediamo ad un’analisi dell’anima umana sia nel suo percorso interiore, sia nella sua dimensione relazionale.2 In questo senso le immagini della casa dicono il nostro inconscio, il nostro ricordo, la nostra immaginazione, persino le nostre dimenticanze, e ci dicono che tali figure sono “accasate”, dicono che la nostra anima è una dimora e che, immaginandoci la casa, noi impariamo a dimorare presso noi stessi e con gli altri, ultimamente impariamo a dire nei stessi e a deciderci per la vita. Così – come afferma Bachelard – le immagini della casa funzionano in due sensi: «esse sono in noi così come noi siamo in esse».3 Assumo, quindi, alcune immagini simboliche della casa, soprattutto quelle che ci consentono di gettare il ponte tra l’esperienza della famiglia come chiesa domestica e della chiesa come famiglia di Dio. Tra le molte possibili ne ho individuate quattro che ci forniscono il canovaccio del nostro discorso.
1. La casa natale: la grande culla.
La prima immagine dell’abitare che ci sorge spontaneamente nel ricordo e nell’immaginazione è la casa natale, immaginata come una “grande culla”, cioè come il progressivo dilatarsi nei primi anni della vita del grembo materno. Così la dimora del cucciolo d’uomo passa dal seno accogliente della madre (padre) alla culla, al lettino, alla propria stanza, alla casa natale, al nido d’infanzia, alle prime esplorazioni verso il mondo. Soffermiamoci su questo aspetto della simbolica della casa, che riguarda il dare e il ricevere la vita. La casa appare come lo spazio della protezione e dell’intimità, il luogo dove non solo si è collocati nel mondo (nel senso di essere “gettati là”), ma lo spazio in cui si viene alla luce. Per questo l’evangelista Giovanni dice: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). Non si può ricevere la luce “vera”, se non si viene dati “alla luce”. Non si può essere generati alla fede, se non si viene generati alla luce della vita. La casa natale è il luogo dove si viene generati all’atteggiamento originario della coscienza, risvegliata nel bimbo dall’esperienza del corpo in contatto con la madre/mondo (attraverso i momenti di fame e nutrimento, sonno e veglia, freddo e caldo, presenza e assenza). Essa non esprime solo l’ingenuo incanto di una presenza pienamente ricevuta, ma anticipa (e talvolta teme) la sua possibile mancanza. La prima esperienza del mondo come dono, che brilla nell’aria – come ci dice Gesù – quando guardiamo gli uccelli del cielo e i gigli del campo, è data nell’esperienza della nutrizione e del vestito nella casa-grembo natale. Il mondo donato con la madre risveglia lo sguardo recettivo del bimbo che lo accoglie come dono, meglio come dono promesso, presente come promessa e assente come pieno possesso: per questo la maternità della casa è il luogo dove sorge la meraviglia di fronte al mondo e instilla pian piano la fiducia nella vita. In tal modo la casa è “natale” in senso assai forte, non solo perché vi si nasce, ma perché si è continuamente generati alla vita come dono gratuito, come una cosa buona, come un bene promesso, che dovrà essere poi scelto come bene per sé nella lunga generazione che dura tutta l’esistenza. Perché, è vero, si nasce solo una volta, ma si è generati durante tutta una vita. Per questo la casa è “natale”! Per questo sarebbe bello che ogni Natale si rinnovasse, sul quadrante del tempo (e difatti si rinnova anche se la maggioranza delle persone non se ne rende conto), il mistero della vita non solo procurata, ma donata! La “casa natale”, allora, ha a che fare con il dare la vita, concepito non solo come un mettere al/nel mondo, ma come il dare alla luce e il donare la luce. A volte la vita viene solo procurata, ma dare la vita come un bene comporta di donarla e, rispettivamente, tale gesto deve consentire al figlio di riceverla. Tra il donare la vita e il riceverla si colloca l’avventura dell’esistenza e questa è la prima grazia che si riceve nella casa natale. Nella casa natale si apre la porta dell’essere, si viene a contatto con l’energia dell’origine. Anche quando si cambia casa, l’immagine della “casa natale” (che può essere anche quella di elezione, presso la nonna, la tata, ecc.) rimane indelebilmente il sigillo che la vita è dentro la protezione dell’essere, è all’interno di una donazione originaria. E se dovesse capitare, come purtroppo avviene, che l’esperienza della casa della nascita non è stata quella di una casa “natale”, cioè di una casa che genera alla vita, non basterà un’esistenza per ricostruire con infinita pazienza la grazia dell’origine perché, come dice la Bibbia, “mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto” (Sal 27,10). La casa natale è dunque lo spazio della fiducia fondamentale, cioè dove si semina la certezza che la vita è un bene promettente. Si noti: il bene è solo promesso, la vita è appena donata. Tra la promessa e il compimento, tra il dono concesso e il bene ricevuto ci passa l’avventura del crescere, del “deserto grande e spaventoso” (Dt 1,19), ma anche meraviglioso e struggente, che consente di diventar grandi e liberi. La fiducia fondamentale si riceve nella casa natale: essa è il germe di una visione della vita come bene promesso, è il seme della vocazione! La famiglia è chiesa domestica perché si trasmette il senso della vita come cosa buona da scegliere e a cui dedicarsi.
2. La casa paesaggio: lo spazio degli affetti.
La seconda immagine della casa che struttura la nostra coscienza è la figura della casa paesaggio dell’anima. La casa è il mondo in piccolo, anzi è il mondo nell’angolo più intimo della nostra vita, è il paesaggio interiore e relazionale, è lo spazio degli affetti. La casa natale è il luogo che dischiude lo spazio per gli affetti, per tutte quelle relazioni da cui si è toccati, da cui si è in qualche modo sorpresi, cioè presi-come-da-sopra. La casa natale non è solo il luogo della protezione e dell’intimità, ma anche il luogo dell’estroversione e della scoperta. Anzi l’intimità è come la sorgente inesauribile per la scoperta dell’altro, la protezione è come l’ombrello sicuro per l’esplorazione del paesaggio della vita. Bisogna che sostiamo ancora per un momento sulla simbolica della casa nel bambino: il fatto che la casa sia lo spazio sicuro, affettivamente garantito, inaugura la possibilità dell’esplorazione del mondo (degli altri e delle cose). Introduce cioè una direzione di scoperta, una dinamica verso l’oltre, che è simbolica della ricerca di sé e dell’apertura all’altro, in una parola che apre alla relazione. Osserviamo che la casa natale diventa il mondo in miniatura, il primo paesaggio per l’esplorazione del bambino: dal basso verso l’alto, dall’interno verso l’esterno. Bachelard ha messo in luce con grande finezza la duplice dinamica di centralitàverticalità, nel ricordo infantile dell’esplorazione della cantina e della soffitta. La prima porta verso la ricerca interiore del grembo oscuro da cui si proviene, è il movimento verso la centralità, verso il proprio paesaggio interiore; la seconda porta verso l’alto, il tetto, verso la finestra che apre sul cielo, quindi verso il sogno, il futuro, il destino, tuttavia ancora rassicurante e protetto nello spazio della casa. Più avanti negli anni, la stessa dinamica si tradurrà dall’interno verso l’esterno, dalla propria camera, dal proprio armadio o cassetto con le cose segrete, verso l’esterno, il giardino, il cortile, lo spazio del gioco, del sogno, della gratuità che configura il mondo e apre lo spazio della relazione con i fratelli e gli amici. La casa diventa così spazio degli affetti e delle relazioni: spazio degli affetti che consente di ricevere il dono della vita e tutti i modi con cui il papà e la mamma lo rendono quotidianamente presente, come un dono per sé e come un dono che lascia spazio e concede tempo per il proprio io. La vita data – dicevamo – deve essere donata e deve dischiudere lo spazio-tempo per essere ricevuta. Per questo la casa da “grembo” si trasforma in “paesaggio” da esplorare, da sognare, da immaginare, da scoprire. Anzi la casa comincia ad aprirsi, verso l’alto e verso l’esterno, non è una scatola chiusa, una caverna che porta solo verso l’origine, ma ha una soffitta, una finestra, un balcone, un giardino, un cortile, dà su una piazza. La casa abitazione diventa la casa abitata e da abitare, da addomesticare, da rendere propria dimora, proprio mentre si differenzia dalle altre case. In questa direzione è interessante una riflessione sulla figura del padre, che non rappresenta solo la vita donata, ma anche la sfida che il dono porta con sé, il fatto che la vita donata deve essere ricevuta e ha da essere spesa. Il bambino impara a ricevere la vita, ad apprezzarla, a sentirla come una possibilità, una voce che chiama, ma con questo il bambino impara anche a ricevere se stesso, costruisce la stima di sé, non solo perché è protetto, ma perché è lasciato essere, perché gli viene dato tempo per agire, perché è stimolato, apprezzato, rassicurato. Il bimbo ha una direzione verso cui muoversi, ha un oltre verso cui andare e può incontrare un altro da imitare (in prima battuta il padre, ma poi anche i fratelli). La “fiducia fondamentale” della vita – trasmessa nella “casa natale” – rappresenta l’origine inesauribile delle risorse trasmesse in dono; la vita come “chiamata” – anticipata nella “casa paesaggio degli affetti” – apre il ragazzo ancora fanciullo a una direzione da percorrere, da esplorare, da capire, e poi l’adolescente e il giovane progressivamente a scegliere l’esistenza come cosa buona per sé e a cui dedicarsi. La “casa paesaggio” degli affetti e delle relazioni è il secondo momento della famiglia come chiesa domestica: essa è propriamente il luogo dove si sperimenta che il germe della vita come bene promesso ha da essere ricevuto nella gratuità degli affetti e delle relazioni. Qui nasce la famiglia come evento di libertà: se nel gesto di dare la vita è già anticipata la libertà più grande e la scommessa più forte che è quella di chiamare un uomo e una donna all’esistenza, nel gesto di lasciar essere la vita, nell’avventura di aprire lo spazio per cui la vita donata sia la vita ricevuta come un dono, la libertà dei genitori viene sottoposta alla prova del tempo, perché la gioia del dono della vita deve passare al vaglio della fedeltà. Occorre custodire il dono, lasciarlo essere, dargli tempo per crescere, non rivendicarlo come un merito, aprire lo spazio degli affetti e delle relazioni perché ciascuno cerchi e ritrovi la propria identità e il proprio futuro. Questa è, per così dire, la seconda generazione, le cui doglie del parto durano tutte le fasi della vita (soprattutto la fanciullezza, l’adolescenza, la giovinezza), in cui tutte e due i genitori fanno nascere alla vita adulta – insieme – i figli e la propria famiglia. La famosa espressione: «Famiglia diventa ciò che sei!» non ha il significato, tutto sommato banale, che la famiglia deve esprimere il valore che porta con sé, ma quello più radicale che costruisce se stessa come valore, proprio nel gesto centrale di dare la vita e di consentire di riceverla, di far crescere la vita come evento della libertà e dell’amore! Si potrebbe pensare che la famiglia moderna – definita “famiglia affettiva” – sia la meglio attrezzata a far vivere questo momento: ma sovente la famiglia affettiva si limita a rendere la casa paesaggio una casa mappa, quasi una cartina geografica perché ciascuno trovi il proprio posto senza lasciarsi scomodare dalla presenza dell’altro. Lo spazio degli affetti diventa uno spazio psichico, in cui “star bene”, in cui non disturbarsi, non stimolarsi, non deludersi, non richiamarsi, non essere appello per aprire le porte e le finestre della casa, e diventa un grembo affettivo, dove l’altro è solo lo specchio di me, e così non mi fa diventar grande e non mi fa crescere. La casa implode su se stessa, e così diventa casa albergo, una casa andirivieni, a cui si ritorna per i bisogni funzionali, e da cui non si riesce mai a partire, perché in fondo offre tutto a portata di mano, senza mai dare uno slancio per partire verso l’avventura della vita. La casa “chiesa domestica” deve, dunque, rendere possibile questa seconda dimensione: deve far passare dalla fiducia fondamentale alla responsabilità personale, deve consentire di aprire le finestre e le porte per cercare la propria stella polare, deve educare il desiderio alla libertà personale. Per questo la famiglia è il luogo della crescita, della fanciullezza, dell’adolescenza e della giovinezza, e perciò della scoperta, della differenza e della partenza. Senza questo secondo passo anche la comunità cristiana sarà abitata da credenti la cui fede è fondata più sul bisogno che sulla vocazione, più sulla tradizione che sulla convinzione, più sul copione da ripetere che sull’avventura della vocazione.
3. La casa appartamento: il luogo privato.
La terza immagine della casa è quella tipicamente postmoderna, che comporta l’abbandono dalla famiglia patriarcale a favore della famiglia nucleare e, di conseguenza, il cambiamento dalla casa abitazione alla casa appartamento. Questa non sembrerebbe un’immagine positiva della casa, ma piuttosto lo spazio che la rinchiude nella sua privatezza. Tuttavia conviene fare anche un cenno a questo epigono della lunga storia di modificazioni della casa per mostrane i pregi e i limiti in ordine all’esperienza della famiglia come chiesa domestica. Potremmo dire che la forma moderna della casa “appartamento” rappresenta insieme il luogo personale e il luogo privato della vita di coppia. L’appartamento rappresenta nelle sue varie forme, nella casa singola, nella villetta a schiera, nel condominio, nel grande conglomerato fino al grattacielo, la scelta di staccarsi simbolicamente dalla famiglia di origine e di costruire la nuova famiglia a partire da un solo nucleo di coppia: decisiva in questa figura è la mancanza dei genitori nello stesso spazio familiare, per non dire degli altri parenti. Questa linea emergente ha dato figura spazio-temporale all’enfasi moderna sul primato della persona, e quindi al primato della coppia, all’amore personale, al sentimento su cui si fonda la coppia moderna. Il sogno, la scelta della casa, il suo arredamento, le fatiche dell’ultima fase del fidanzamento, l’impegno finanziario che spesso si protrae sino al primo decennio della vita della coppia, rappresentano il momento simbolico con cui la coppia dà corpo al mondo delle proprie emozioni, alla forma romantica dell’amore dove il sentimento rappresenta la connotazione essenziale della vita personale, dello scambio affettivo, dell’intesa sessuale, del progetto comune. Anche le coppie dove resta traccia della scelta di un progetto comune di vita, e quindi di una decisione etico-religiosa del matrimonio, sono attraversate dall’inizio alla fine dal sentire e dal sentirsi in uno stato di benessere affettivo dentro la coppia. La “forma appartamento” della casa sembra vestire perfettamente questa dimensione del primato della persona, intesa però come il primato del sentire personale e del sentirsi dentro un cammino comune. Questo è certamente positivo e la casa-appartamento esprime (prima del figlio) la migliore concretizzazione della coppia nella forma moderna: essa entra nel mondo dei sogni, rappresenta il primo scontro con il principio realtà, con i suoi costi, le interferenze della famiglia di origine nella scelta, nell’arredamento, nella collocazione, ecc. La casa appartamento è dunque il luogo simbolico dell’amore personale e, nel caso positivo, del progetto comune di vita. La casa appartamento ha, tuttavia, la forma del progetto disegnato da capo, rappresenta quasi uno strappo rispetto alla successione della casa paterna e del dono della vita, così che la donazione parentale non ha più un elemento simbolico con cui trasmmetersi, se non il corpo del figlio e il contributo finanziario alla costruzione della (nuova) casa. In tal modo la casa appartamento rappresenta un’interruzione della tradizione, e decreta la debolezza della casa moderna, e insieme della famiglia postmoderna. L’appartamento – come insinua il termine stesso – fa vivere la coppia e la famiglia in modo “appartato”, in maniera “privata”, collocando l’esperienza e la coscienza dei coniugi in uno splendido isolamento. Occorrerebbe riflettere più profondamente su questa privatezza della coppia postmoderna, per mostrare il mal sottile da cui può essere afflitta. Il carattere privato dell’esperienza della coppia nell’appartamento la espone a due fenomeni: quello della dipendenza a distanza e quello della mancanza di punti di riferimento. Nei confronti dei genitori, la famiglia-appartamento coltiva insieme un rapporto di dipendenza a distanza e di distacco isolato. Il primo si esprime nella forma concitata con cui la famiglia mantiene una dipendenza per le visite, per il giorno festivo, per la cura dei figli, per la malattia dell’anziano, da rendere compatibile con il lavoro di entrambi gli sposi. Il distacco si paga al caro prezzo dell’isolamento, della difficoltà a gestire i ritmi della vita quotidiana, della mancanza di punti di riferimento, della solitudine nella cura e nell’educazione dei figli, ma ultimamente nella privatezza della vita di coppia. La relazione alla propria origine diventa così problematica e genera una specie di “fenomeno-elastico” paradossale, per cui alla separazione delle case non corrisponde una vera autonomia relazionale della nuova famiglia dal grembo parentale: sembra che più s’intende distaccarsi, più si mantiene una dipendenza ambigua, vischiosa con la famiglia d’origine, soprattutto nel legame psichico con la madre. L’isolamento della coppia genera l’effetto “eco”, cioè una sorta di rimbombo nello spazio “appartato” e “privato” della famiglia nucleare: i rapporti di coppia e i problemi educativi si ingigantiscono, lasciando la coppia non solo isolata, ma anche privata da punti di riferimento. La famiglia privata genera una privazione della famiglia. Il progetto comune di vita, che era il vantaggio della casa appartamento, corre il rischio di afflosciarsi su un menage di vita immiserito, che tira a campare. Per questo credo sia necessaria una vigorosa correzione del regime di appartamento, promuovendo un’alleanza di famiglie. Il tempo presente raccomanda una vistosa correzione della famiglia nucleare, non tanto immaginando “condomini solidali” che rimangono esperienze profetiche, ma un sistema di famiglie in rete, che costituiscono quasi la trama previa della vita parrocchiale. La famiglia come chiesa domestica ha qui un suo snodo importante. La famiglia appartamento fatica ancora di più ad essere chiesa domestica: può pregare, fare gesti religiosi, ma gli manca quel tessuto fondamentale per cui il proprio progetto di vita sia consistente, per cui la fiducia fondamentale e la dimensione vocazionale si collochino dentro una rete di figure da imitare, da seguire, con cui camminare insieme. Il passaggio dalla famiglia appartamento alla parrocchia comunità risulta così assai debole, perché deve colmare la distanza più grande. D’altra parte, la parrocchia deve porre in comunicazione un arcipelago di isole o, nel caso più consueto del condominio, un alveare di celle. Essa non può disporre come un tempo di aggregazioni intermedie come la corte, la frazione, il quartiere, il villaggio che tessevano la trama domestica della comunione ecclesiale. Ma così non ne scapita solo la chiesa comunità, ma anche la famiglia che non riesce più ad essere cellula ecclesiale dove si imparano le prime forme della vita comune, della prossimità, della vicinanza al bisogno, del servizio agli altri. Ognuno ha i suoi bisogni e dura già grande fatica a non soccombere alle loro necessità!
4. La casa universo: la finestra sul mondo.
L’ultima immagine della famiglia è la casa universo: il raccogliersi nello spazio della casa consente ai membri del corpo familiare di rendersi prossimi al mondo. La casa diventa così una finestra aperta sul mondo. Lo strumento espressivo di questa interiorizzazione del mondo e addomesticamento della natura è il linguaggio in tutte le sue varie forme. Non è un caso che la lingua-madre sia la forma originaria dei linguaggi, la cultura in senso antropologico, cioè l’insieme di quegli usi, costumi, comportamenti e istituzioni che determinano l’essere vivente come essere culturale. Osserviamo, anzitutto, come la stessa topologia della casa rappresenti questo duplice movimento dove il mondo è raccolto nel punto di orientamento della casa e dove la casa diventa il centro da cui partire per l’esplorazione del mondo. Il mondo nella casa riceve un centro, a partire dal quale il mondo diventa esplorabile nella sua totalità. Il centro della casa diventa il luogo di orientamento al quale possono essere riferite tutte le coordinate del mondo. La casa diventa simultaneamente luogo di separazione e di trasformazione. Nel primo movimento centripeto l’uomo deve rinchiudersi all’interno, nascondersi, preservare la propria intimità, porre la differenza con l’esterno, innalzare pareti che segnino una separazione, una delimitazione, una difesa dalla confusione con la natura. E’ il gesto con cui l’uomo diventa essere culturale non solo perché si difende dall’ambiente ostile e avverso, ma perché spontaneamente interpreta questa difesa come posizione della differenza. La parete pone un di-fronte, fa riascoltare la propria voce, differenzia dal cosmo e consente poi l’esplorazione del cosmo come un atto umano e non semplicemente come un’immersione con-fusionale. Le pareti esterne della casa e le separazioni interne nella casa sono il principio della differenza, dell’autonomia, dell’intimità, a partire dalle quali soltanto è possibile scoprire un “oltre”, guardare da una finestra, sporgersi da un balcone, dischiudere una porta. E’ interessante che anche nelle forme delle case più indifese, come la tenda presso gli arabi, l’ospitalità prevedesse una simbolica di avvicinamento e di allontanamento: una porta aperta, la lavanda dei piedi, il dono del cibo, l’alloggio temporaneo, le provviste per il proseguimento del viaggio. In questo modo il movimento di chiusura, la parete, la porta, il focolare, la parte più intima della casa-capanna, intesa come l’omphalos sacro del mondo, è il principio della separazione dal cosmo, della singolarità della forma umana e l’inizio del processo culturale. Di qui il secondo movimento: la casa in quanto è luogo di separazione, di interiorizzazione del mondo (dove per così dire il mondo giunge alla coscienza) diventa anche luogo di trasformazione, di civilizzazione, di addomesticamento del mondo. La costruzione del mondo appare, dunque, una protesi della casa nelle sue varie forme, il corpo allargato dell’uomo. La natura diventa mondo, “cosmo ordinato” a partire dalla topografia della casa, cioè a partire dall’ordinamento di spazi, di rapporti e di modi di abitare, trascritti nella casa. Sarebbe interessante mostrare come, nello sviluppo della storia, l’esperienza e la costruzione della casa si rifletta nell’esperienza e nella comprensione dell’ambiente e del mondo. Così all’esperienza della casa come castello corrisponde l’esperienza del mondo come luogo di transito inospitale per trovare riposo solo in un’altra costruzione munita di difesa (qui la città è la città murata); all’esperienza della casa come villa con grande giardino corrisponde l’esperienza del mondo come reticolato di case in un immenso giardino-paradiso; all’esperienza della casa nella corte corrisponde l’esperienza del mondo comune-città attorno alla piazza e alla chiesa; all’esperienza della casa come appartamento corrisponde l’esperienza del mondo come alveare, luogo di lavoro, di scambi e di commerci. In tal modo la casa universo rappresenta il luogo dove il mondo si raccoglie e da dove l’uomo si espande per civilizzare la natura. Qui voglio accennare ad un’ultima dinamica della famiglia nella casa universo aperta al mondo: la coppiafamiglia diventa un soggetto culturale, cioè uno spazio e un tempo dove sono trasmessi i codici di comprensione del mondo e di costruzione del comune destino. La famiglia oggi, tuttavia, non riesce ad essere un ambiente di trasmissione culturale e spirituale. Se già la coppia progetto, come si è visto sopra, fatica a vivere questo sogno dentro il regime di appartamento, più ancora si sente inadatta a vivere il compito di essere il primo soggetto di trasmissione culturale dei significati dell’esistenza e dei valori pratici per costruire un futuro comune. Questo è un ulteriore momento della famiglia in quanto chiesa domestica, come luogo per elaborare linguaggi, comportamenti, gesti, scelte, iniziative, che aiutino a costruire la vita come luogo di scambio simbolico, spazio per aprirsi all’altro e per costruire insieme all’altro non solo prodotti da consumare, ma un sogno per crescere insieme. Basti pensare ai primi anni della vita di un figlio per accorgersi quanti linguaggi la famiglia trasmetta, nel bene e nel male: essi non sono soltanto modi di denominare le cose, di dare spiegazioni e ragioni, di ordinare e classificare le realtà, ma anche modi con cui esprimere valori e giudizi, comportamenti e progetti, sogni e speranze. Basti ricordare come i bambini siano mimetici nei confronti dei loro genitori e dell’ambiente familiare e, anche quando da adolescenti e da giovani si distanziano dall’ambiente familiare, la lingua-madre in tutte le sue variegate ramificazioni resta la matrice di ogni ulteriore esperienza e progetto. Tuttavia occorre notare che oggi, non solo la famiglia nucleare, ma anche la famiglia con un figlio unico, manca dei minimi per istituire il linguaggio sociale. Anche tutti i tentativi di far vivere ai figli di diverse famiglie esperienze comuni, pur belle e oltremodo necessarie, finiscono per essere esperienze fiacche e velleitarie, perché non approdano al vero obiettivo che è quello di costruire i codici esistenziali e sociali della vita senza i quali è impensabile un vero tessuto sociale o una vera esperienza comunitaria. Gli incontri e i confronti tra famiglie e i rispettivi figli sono così sporadici e intermittenti, soprattutto non consentono un confronto con il principio realtà, con le fatiche, le resistenze, i fallimenti, senza i quali non è possibile affinare un comune linguaggio sociale. Questo è, dunque, il luogo per ricostruire un nuovo contesto di reti familiari, il più necessario perché è il più carente. Siamo in difficoltà anche ad indicare la direzione nella quale andare: occorre ricostruire ambienti familiari intrecciati tra loro, alleanze di famiglie, che sappiano essere luoghi affidabili di trasmissione dei codici culturali, dei valori, dei gesti e dei comportamenti. La rete di famiglie di cui parlavamo sopra può e deve diventare una rete ambientale, una specie di piazza o di villaggio di famiglie, dove si scambiano linguaggi comuni, codici condivisi, scelte stimolanti, esperienze creative, ecc. L’espressione chiesa domestica applicata alla famiglia deve mediarsi in una rete di famiglie, per essere dal basso la via preparata alla parrocchia intesa come una “casa di/delle famiglie”. La stessa chiesa dovrà favorire un’alleanza tra le famiglie. Se non lo facesse si toglierebbe una mediazione necessaria per vivere in modo intenso la sua esperienza comunitaria.
II. LA CHIESA COME “FAMIGLIA DI DIO”
Il percorso essenziale della nostra riflessione è così tracciato. Abbiamo disegnato, attraverso la simbolica della casa, alcuni tratti soltanto – e si comprende come sarebbe affascinante continuare – della famiglia come “chiesa domestica”. Non ci resta ora che fare il tragitto inverso: vedere come attraverso la mediazione della famiglia come chiesa domestica, la chiesa possa diventare una famiglia di Dio, una casa di famiglie e delle famiglie. Tuttavia questa seconda parte della relazione offrirà solo l’indice del discorso. Sarebbe un approfondimento interessantissimo da fare per un uditorio di pastori, consigli pastorali, ministeri ecclesiali e familiari. Delineerò solo un canovaccio, con il desiderio di svolgerlo approfonditamente in altra sede. Faccio notare che il tema della chiesa come “famiglia di Dio” è diventato parte importante di progetti pastorali a tutte le latitudini del globo:4 dalla pastorale africana, dove il concetto di Chiesa familia Dei ha un particolare background antropologico nella cultura del continente, a consistenti progetti nell’area anglofona (C. Murphy-O’Connnor, L. Dohann), nell’area germanica (G. Lohfink, P. Wess, P.M. Zulehner), e ora anche nell’area italiana con il progetto “Parrocchia, famiglia di famiglie”.5 Spesso queste concezioni servono a smuovere il panorama di una chiesa troppo clericale e a sottrarla all’angusta contrapposizione clero-laici e quindi prospettare un superamento della visione pastorale della chiesa-di-popolo (massificata e istituzionalizzata) in favore non tanto di una chiesa di élite, ma di una comunità di rapporti fraterni. Naturalmente il senso di questi progetti andrà giudicato volta a volta in rapporto al contesto e alle istanze che promuovono. Merita certamente riferire la tesi che guida il lavoro più recente di ricerca sulla Chiesa come “famiglia di Dio”, ad opera di F. Bechina: «La chiesa è la famiglia dei figli di Dio in Cristo, loro fratello, comunione familiare con il loro Padre in cielo e comunità fraterna tra loro. Essa, mediante la forza dello Spirito santo, è partecipazione alla vita trinitaria, la cui “comunione” irradia in forma di segno reale. Per ciò essa è “sacramento” attraverso cui la famiglia umana si può evolvere in famiglia di Dio nel mondo e nella storia fino al compimento».6 La tesi – come è facile notare – trascrive l’ecclesiologia nella sua interezza all’interno del concetto di “famiglia di Dio”.7 Probabilmente, come per la nozione di popolo di Dio, il concetto dovrà precisare con accuratezza che cosa significa il genitivo di specificazione e di appartenenza (famiglia di Dio) per non cadere in un’ecclesiologia familizzata, senza indicare la differenza “cristiana” della chiesa che non può essere la semplice somma di famiglie. Tuttavia per l’obiettivo della nostra relazione è sufficiente, come dicevo, disegnare le articolazioni fondamentali del concetto di Chiesa come famiglia di Dio, e corrispondentemente di parrocchia come “famiglia di famiglie”. Riprendendo il nostro approfondimento della famiglia come “chiesa domestica” mediante la simbolica della casa, mi pare di poter trasporre i quattro elementi sopra elaborati nella visione di chiesa-parrocchia “famiglia di Dio”. I quattro risultati, a cui siamo approdati, sono: la famiglia “chiesa domestica” è il luogo dove si trasmette 1) la fiducia fondamentale della vita come dono, 2) la responsabilità personale della vita come vocazione; insieme è il luogo dove la coppia costruisce 3) il proprio progetto di vita comune e così diventa capace di essere 4) il primo ambiente di trasmissione culturale e spirituale. Questi quattro aspetti sono per così dire l’alfabeto e/o la grammatica antropologica dell’esperienza di chiesa come “famiglia di Dio”. Come è noto, se dall’alfabeto o dalla grammatica non deriva direttamente il discorso o l’opera letteraria, tuttavia la chiesa non può non assumere i canoni grammaticali dell’esperienza familiare per dire l’esperienza viva e vitale della fede dentro una comunione credente. Di qui i quattro aspetti della chiesa come famiglia di Dio che descriverò solo brevemente.
1. La chiesa/famiglia di Dio come generazione:
la chiesa come “famiglia di Dio” è il luogo dove si porta a compimento il gesto generativo della famiglia come “chiesa domestica”. Se la famiglia trasmette nella casa natale la fiducia fondamentale della vita, la chiesa introduce, attraverso il suo cammino di iniziazione, alla vita come un dono che viene dall’alto, che non proviene solo dai genitori, ma che viene dalla sorgente di ogni vita, il Padre che è nei cieli. Attraverso i suoi percorsi di iniziazione la chiesa, dunque, dà un nome “teologale” al senso della vita come dono, ma consente di riceverlo come pane di vita (Gv 6), come dono dall’alto/dal cielo/da Dio/dal Padre. La casa “grembo natale” trasmette la fiducia fondamentale e con essa la forma primaria della fede, nella chiesa famiglia di Dio la fiducia diventa fede teologale, generazione dei figli di Dio, i quali non da carne, né da sangue, ma da Dio sono stati generati. Questo è il punto di diretta reciprocità tra chiesa e famiglia: la famiglia genera alla vita come fiducia fondamentale, la chiesa genera alla fede come vita divina. In tal modo la famiglia approda alla chiesa e la chiesa entra in famiglia. Resta uno dei segni più preoccupanti della pastorale della chiesa, e della parrocchia in particolare, la difficoltà a mantenere la relazione profonda con le famiglie nei primi dieci anni della loro vita, nel momento magico della generazione. E’ forse questo uno dei motivi per cui la chiesa oggi sperimenta una debolezza a iniziare alla fede. Il momento dell’iniziazione non inizia alla vita comunitaria, ma paradossalmente per molti versi la conclude. Ricevuti i sacramenti dell’iniziazione, il cammino si arresta.
2. La chiesa/famiglia di Dio come comunione:
la chiesa come “famiglia di Dio” è il luogo che porta a compimento la famiglia come “spazio degli affetti e delle relazioni”. Se la famiglia trasmette, nella casa paesaggio dell’interiorità e delle relazioni, la responsabilità personale della scelta di vita, la chiesa accompagna a dare alla scelta di vita il respiro della vocazione, con l’orizzonte ecclesiale e missionario, che è l’orizzonte stesso della comunione trinitaria. Non solo la chiesa viene dalla comunione trinitaria, ma anche i singoli cammini di iniziazione devono maturare nel senso di una vocazione ecclesiale, interiormente riferiti alla communio e missio della chiesa. La casa paesaggio degli affetti e delle relazioni è la prima scuola della comunione, è il paesaggio dove la famiglia affettiva, che può rinchiudersi in un immediato “star bene tra di noi”, viene sospinta verso la comunione dei liberi legami, dei rapporti affettivi che si trasfigurano in relazioni spirituali, più francamente in vocazioni a respiro ecclesiale e missionario. Qui la famiglia esce di casa ed entra nella chiesa, qui percorre sempre il necessario cammino che va dalla carne e dal sangue verso la vocazione filiale nel Signore Gesù e verso la comunione dei legami nello Spirito. Questo è il punto di trasposizione dalla famiglia alla chiesa: la famiglia educa alla vita come scelta, la chiesa dà un nome cristiano ed ecclesiale a questa scelta e vocazione. Se nel primo movimento la chiesa non può fare a meno della famiglia, nel secondo la famiglia ha bisogno della chiesa perché i figli siano capaci di lasciare il padre e la madre in maniera giusta per costruire un destino futuro, una nuova casa e una nuova avventura. Anche qui ne viene un compito affascinante per la chiesa in continuità con la famiglia: quella di essere il posto di ricerca della vocazione, lo spazio dove si sperimenta la comunione trinitaria come chiamata e vocazione, l’atmosfera che genera persone di comunione, l’ambiente che suscita gesti di servizio, il cammino che stimola slanci di dedizione e avventure che sono capaci di segnare la vita degli uomini e delle donne a tal punto da far trovare loro una nuova identità. La chiesa è il luogo della vocazione, perché la famiglia è lo spazio degli affetti; se la famiglia apre a nuove relazioni, allora la chiesa saprà essere il grembo dove nasce l’infinita varietà dei carismi e delle missioni.
3. La chiesa/famiglia di Dio come fraternità.
La chiesa come “famiglia di Dio” è il luogo che dà un orizzonte alla famiglia come “progetto comune di vita”. Se la famiglia realizza nella casa appartamento un sogno comune, un’intima comunione di vita, dentro la trama del quotidiano, la chiesa rende possibile che questo sogno comune sia anche il sogno di altre famiglie, strappandole dal loro ripiegamento nel privato. Qui più che in ogni altro luogo si comprende il servizio che la chiesa deve alla famiglia postmoderna, rinchiusa nella casa appartamento. Se questa tende a trasformare la casa appartamento da luogo del progetto a spazio privato, la chiesa ha la missione di deprivatizzare la famiglia, perché così la famiglia possa deindividualizzare la chiesa. Deprivatizzare la famiglia vuol dire sottrarla alle sue dinamiche centripete di ripiegamento su se stessa, significa dischiuderla da famiglia affettiva a famiglia capace di mettere in giusta autonomia relazionale i suoi membri, vuol dire mettere in rete le famiglie prima tra loro che con la Chiesa. La chiesa ha questo servizio fondamentale da rendere oggi alla famiglia nel postmoderno: trasformare lo spazio privato della casa in spazio ospitale ed aperto, farle comprendere che uscire di casa non è un bisogno o un impegno, ma è come il respiro per non smarrire il sogno che ha fatto nascere la coppia e la famiglia. Così la chiesa potrà rappresentarsi meglio il proprio volto fraterno. La fraternità della chiesa non può essere solo la somma di individui, ma è la costellazione di soggetti già aggregati, che hanno già vincoli di affetti, di progetti e di servizi e che trovano nella chiesa un respiro veramente missionario. La chiesa come fraternità mette in rete le famiglie, collega i nodi tra loro, pensa ad un modo di essere comunità che è una “famiglia di famiglie”. La riflessione pastorale dovrà articolare in un progetto praticabile questa intuizione.
4. La chiesa/famiglia di Dio come segno visibile.
La chiesa come “famiglia di Dio”, infine, apre la famiglia come primo “ambito di trasmissione culturale e spirituale” ad uno slancio missionario. Se la famiglia mette disposizione i linguaggi originari per denominare ciò che è buono, vero e bello, la chiesa educa il linguaggio familiare ad avere il respiro della comunione e della missione. Se la casauniverso nel suo raccogliersi nella famiglia è il punto di interiorizzazione della natura e della storia, degli eventi e dei destini degli uomini, se la casa aperta è il punto di partenza per l’addomesticamento del mondo, per renderlo un mondo umano, un mondo dove è possibile operare lo scambio simbolico tra le persone e le cose, la chiesa custodisce il fatto che l’interiorizzazione della vita e l’apertura al mondo non diventi un addomesticamento della fede. Piuttosto la chiesa colloca la famiglia dentro l’onda di una chiesa missionaria, di una comunità di famiglie che è segno visibile per altre famiglie e per lo sviluppo della società. Una fede domestica non può diventare una fede addomesticata, e la chiesa è il luogo dove le famiglie riconoscono che la loro esperienza si deve aprire dal di dentro ad una dinamica di servizio, di ministero e di missione. La chiesa non solo mette in rete le famiglie, ma costruendo le famiglie in reti familiari mette la famiglia e le comunità parrocchiali dentro il tessuto sociale, dentro la dinamica civile, più ancora fa sporgere la chiesa “famiglia di Dio” ad essere il segno vivo e reale del vangelo che ha preso dimora nelle case degli uomini. La chiesa ricorda ad ogni famiglia la sua vocazione missionaria, la mette per strada, fa scoprire a ciascuno dei suoi membri che si può dare la vita perché sia spesa per gli altri, che per trovare se stessi bisogna donarsi. La chiesa mette la famiglia nel mare aperto della testimonianza, ma lo può fare perché ha imparato dalla famiglia a proporre una missione che passa nel vissuto delle persone, nella storia degli uomini e delle donne che ogni giorno nascono, crescono, soffrono, sperano per diventare figli e fratelli nella famiglia di Dio!
1 Cf H. EICKHOFF, Casa, in Dizionario di antropologia,
2 Diffuso è il rimando all’opera ormai classica di G. BACHELARD, La poetica dello spazio [1957], Bari, Dedalo, 1975.
3 Ivi, 27
4 Si tratta di una approfondita ed esauriente tesi di laurea sulla chiesa come “famiglia di Dio: F. BECHINA, Die Kirche als “Familie Gottes”. Die Stellung dieses theologischen Konzeptes im Zweiten Vatikanischen Konzil und in den Bischofssynoden von 1974 bis 1994 im Hinblick auf eine “Familia-Dei-Ekklesiologie” (= Analecta Gregoriana 272), Roma, Editrice PUG, 1998, pp. 626.
5 Dopo una incursione sul tema nel NT (314-365), l’autore descrive questi progetti pastorali in F. BECHINA, Die Kirche als “Familie Gottes”, 367-440: nella bibliografia si troveranno i riferimenti precisi su questi progetti pastorali (612-626).
6 La tesi è espressa in F. BECHINA, Die Kirche als “Familie Gottes”, 457.
7 La tesi è poi svolta nella parte sistematica dell’opera F. BECHINA, Die Kirche als “Familie Gottes”, 457-601.
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Fonte: Relazione di Franco Giulio Brambilla presentata nel maggio 2003 http://www.diocesipozzuoli.org/uploads/tinymce/11/brambilla_chiesadomestica.pdf
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