sabato, settembre 01, 2018

LA "CASA"- FAMIGLIA TRA OPERA DELLA CREAZIONE E FESTA DELLA SALVEZZA, del Card. Gianfranco Ravasi


LA "CASA"- FAMIGLIA TRA OPERA DELLA CREAZIONE E FESTA DELLA SALVEZZA

del Card. Gianfranco Ravasi




           Non può restare nascosta una casa collocata sul crinale di un monte: parafrasando una celebre immagine del Discorso della Montagna (Mt 5,14), poniamo al centro della nostra riflessione un simbolo radicale nella stessa storia dell’umanità, la casa, un segno che s’affaccia bel 2092 volte col vocabolo ebraico bajit/bêt nell’Antico Testamento e 209 volte nel Nuovo Testamento sotto le parole analoghe oíkos e oikía, accompagnate da uno sciame di circa quaranta termini derivati. Dal crinale, dove svetta la casa simbolica che vogliamo delineare, si diramano due versanti che costituiscono il titolo stesso del nostro tema: da un lato, ecco l’alfa della creazione, che si distende lungo la traiettoria della storia; dall’altro lato, ascende il versante arduo dell’omega, ossia della festa piena della salvezza, l’escatologia, la meta attesa ove il “non ancora” della storia si trasformerà nell’“ora” perfetta della redenzione compiuta e la Gerusalemme terrena si muterà nella nuova Gerusalemme celeste.

           Le fondamenta della “casa”-famiglia
          Toda casa es un candelabro / donde arden con aislada llama las vidas. Forse questo verso era sbocciato nella mente del giovane Jorge Luis Borges, il famoso scrittore argentino, mentre ventiquattrenne passeggiava per una “strada ignota” della sua città, dato che la raccolta poetica s’intitola appunto Fervore a Buenos Aires (1923). Ed effettivamente le mura dei palazzi celano al loro interno tante fiamme “appartate” (aislada), cioè vite isolate nelle loro solitudini o nei loro drammi, famiglie unite nell’amore o scavate dalle divisioni, benestanti o curve sotto l’incubo della povertà o dell’assenza di lavoro. La “casa”, infatti, in molte lingue non è soltanto l’edificio di mattoni, di pietra e di cemento o la capanna o la tenda in cui si dimora (e la mancanza di una casa è un elemento drammatico di dispersione esistenziale), ma è anche chi vi abita, è il “casato” fatto di persone vive e di generazioni. Anzi, talora la “casa” per eccellenza è persino il tempio, residenza terrestre di Dio.
          Suggestivo, al riguardo, è il rimando di allusioni che regge l’oracolo del profeta Natan: al re Davide che vuole erigere una “casa” (bajit) al Signore, ossia un tempio in Gerusalemme, Dio replica affermando che sarà lui stesso a edificare per il re una “casa” (bajit), una discendenza familiare, quindi un “casato” che aprirà una storia destinata ad approdare al Messia (2Sam 7). La “casa” simbolica che stiamo per costruire partecipa di questa visione: è lo spazio che custodisce «l’intima comunione di vita e di amore…, la prima e vitale cellula della società», come il Concilio Vaticano II definisce la famiglia (GS 48; AA 11). È il segno dell’esistenza umana che si compie nella libera relazione interpersonale d’amore, come suggeriva lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton nel suo scritto Fancies versus Fads (1923): «La famiglia è il test della libertà umana perché è l’unica cosa che l’uomo libero fa da sé e per sé».
Già Aristotele, nella sua Politica, considerava la famiglia come la struttura istituita dalla natura stessa per provvedere all’esistenza piena della persona. È spesso ripresa la nota che il famoso antropologo Claude Lévi-Strauss ha posto nel cuore del suo saggio sulla famiglia nella raccolta Razza e storia e altri studi di antropologia (1952): «La famiglia come unione più o meno durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli… è un fenomeno universale, reperibile in ogni e qualunque tipo di società». Questa convinzione è sperimentalmente confermata anche nella società contemporanea, nonostante le apparenze contrarie, come si evince dalla quarta indagine degli “European Values Studies” (2009). Da essa risulta che l’84% dei cittadini europei (e il 91% degli italiani) considera fondamentale la famiglia e inaspettatamente 46 paesi su 47 la collocano al primo posto tra le realtà sociali più importanti, prima ancora del lavoro, delle relazioni amicali, della religione e della politica.
          La “casa” è, perciò, un emblema vivo e vivente che attinge all’antropologia autentica, non solo religiosa, la quale vede nella creatura umana non una monade chiusa in sé stessa, ma una cellula in relazione con un corpo più vasto, un orizzonte aperto che accoglie e si espande. In pratica, come vedremo, l’umanità si rivela “duale”, dotata di una necessità strutturale di dialogo con l’altro. Ha, quindi, un suo fondo di verità l’enfatica intemerata che lo scrittore francese André Gide scagliava nella sua opera Nutrimenti terrestri (1897): «Famiglie, vi odio! Focolari chiusi, porte serrate, geloso possesso della felicità!». Purtroppo, venendo meno alla sua vocazione sociale, la famiglia adotta spesso – soprattutto nella vicenda contemporanea – come emblema la porta blindata, così da rinchiudersi in se stessa, perdendo il suo respiro genuino, la sua identità primigenia, ignorando chi sta fuori di quella cortina di ferro protettiva che si tramuta in prigione.
Andando oltre, dobbiamo ricordare che la “casa”-famiglia è anche, come si diceva, l’analogia per definire il tempio ove si raduna la famiglia che ha per padre Dio. È per questo che uno dei vocaboli per indicare il santuario di Sion è appunto bajit e nel Nuovo Testamento entra in scena la kat’oíkon ekklesía, l’ecclesia domestica, ove lo spazio vitale di una famiglia si può trasformare in sede dell’eucaristia, della presenza di Cristo assiso alla stessa mensa (1Cor 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Fm 2; cf. LG 11). Indimenticabile è la scena dipinta dall’Apocalisse: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20).
          Iniziamo, allora, a far sorgere la “casa” simbolica e vivente che sta su quella vetta dalla quale si dipartono i due versanti della felicità della creazione e della festa della salvezza. È necessario partire dalle fondamenta solide, gettate sulla roccia del monte (cf. Mt 7, 24-25). La base è ovviamente costituita dalla coppia che è la radice dalla quale si leva il tronco della famiglia. Non è possibile ora né è necessario definire questo fondamento attraverso una compiuta teologia nuziale. Ci accontenteremo di rimandare a un testo biblico che è l’incipit stesso delle Scritture e, quindi, della creazione. Esso è desunto da quella pagina che contiene il progetto che il Creatore ha accarezzato come suo ideale e che ha proposto alla libertà della creatura umana. Questo disegno primordiale emerge nel capitolo 2 della Genesi e si affida a una sorta di collana di perle lessicali ebraiche, che ora cercheremo di far brillare in modo essenziale davanti ai nostri occhi attraverso un settenario di termini.
          La prima parola è ‘ezer, letteralmente un “aiuto” offerto nel momento più critico e, quindi, diventa risolutivo e indispensabile. Nel nostro caso c’è un incubo che sta attanagliando l’uomo appena uscito dalle mani di Dio: è la solitudine-isolamento, che spegne quella vitalità ad extra strutturale per la persona. «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un ‘ezer che gli corrisponda», esclama infatti il Creatore (Gen 2,18). Come è noto, non è sufficiente all’uomo avere accanto gli animali, che sono pure una simpatica presenza nell’orizzonte terrestre: «l’uomo non trovò in essi un aiuto (‘ezer) che gli corrispondesse» (2,20). Come ha cercato di rendere questo termine un esegeta, Jean-Louis Ska, ciò di cui ha bisogno l’uomo è «un allié qui soit son homologue». È, dunque, un aiuto vivo e personale, un alleato nel quale egli possa fissare gli occhi negli occhi, anche in un dialogo silenzioso perché – come suggerisce un testo attribuito al grande Pascal – nella fede come nell’amore i silenzi sono più eloquenti delle parole; nei due innamorati che si guardano negli occhi in silenzio l’inesprimibile si fa esplicito, l’ineffabile si rivela.
          Ecco, allora, la seconda formula ke-negdô, tradotta di solito con un “simile” o “corrispondente” aiuto. In realtà, il suo significato di base suona letteralmente così: “come di fronte”. È appunto quella parità di sguardi a cui si accennava. Finora l’uomo ha guardato verso l’alto, cioè verso la trascendenza, verso quel Dio che gli ha infuso il respiro vitale, gli ha donato «la fiaccola» della coscienza che «scruta le profondità dell’intimo» (Pr 20,27), lo ha insignito della libertà, collocandolo all’ombra dell’«albero della conoscenza del bene e del male». L’uomo ha poi guardato in basso, verso quegli animali che rivolgevano a lui il loro muso in attesa di ricevere un nome (Gen 2,19-20). Ora, invece, cerca un volto davanti a sé, un “tu”, «il primo dei beni, un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio», come dice il Siracide (36,26), ma come meglio esclama la donna del Cantico dei cantici, un essere col quale è possibile comporre una piena reciprocità di donazione: «Il mio amato è mio e io sono sua… Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3: l’originale ebraico è musicalmente rimato e ritmato sul suono –ô–  e –î–  che denotano i due pronomi interpersonali, “lui” e “io”, dôdî lî wa’anî lô… ’anî ledodî wedodî lî).
          Passiamo, così, al terzo vocabolo che in questo caso è un simbolo: è quella “costola” sulla quale si sono ricamate tante ironie antifemminili. L’intervento creativo divino avviene all’interno di un “sonno”, che nella Bibbia è segno di un’esperienza trascendente, è la sede delle rivelazioni e delle visioni, è l’ambito in cui Dio è protagonista rispetto alla sua creatura. Ebbene, lo svelamento del valore di quell’azione divina ha luogo al risveglio, quando l’uomo intona quel canto d’amore primigenio che verrà declinato nella storia in infinite forme e formule differenti: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (2,23). Carne e ossa sono le componenti strutturali del corpo umano che, nell’antropologia biblica, è il segno della persona nella sua pienezza comunicativa (non abbiamo un corpo ma siamo un corpo). Si spiega, così, il simbolo della “costola”: essa indica la piena parità strutturale e costitutiva tra uomo e donna. Non per nulla, in sumerico ti designa sia la “costola” sia la “vita” trasmessa dalla donna. E questo ci conduce spontaneamente al quarto termine che si intreccia intimamente con la quinta locuzione ed entrambi risuonano in Gen 2,24: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne».
          È evidente che l’Adamo (in ebraico con l’articolo ha-’adam), protagonista del passo, è l’Uomo di tutti i tempi e di tutte le regioni del nostro pianeta: egli con la sua donna dà origine a una nuova famiglia, definita appunto attraverso i due vocaboli che ora sottolineiamo. Da un lato, c’è il verbo dabaq, “unirsi”, che letteralmente raffigura una stretta sintonia, un attaccamento fisico e interiore, tant’è vero che lo si adotta persino per descrivere l’unione mistica con Dio: «Il mio essere si tiene stretto (dabaq) a te», canta l’orante del Sal 63,9. Per questo san Paolo afferma che «chi si unisce a una prostituta forma con essa un solo corpo…, ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1Cor 6,16-17). Col verbo dabaq si ha, quindi, l’atto sessuale sia nella sua dimensione corporea sia nella sua celebrazione d’amore, di donazione totale della coppia. D’altro lato, ecco appunto la formula finale “un’unica carne “ (basar ’ehad) che definisce visivamente quel dabaq e che apre il discorso forse alla componente successiva della “casa” che stiamo innalzando: infatti, per l’esegeta tedesco Gerhard von Rad, l’“unica carne” è anche il figlio che nascerà dai due e che porterà in sé, unendole, non solo geneticamente, ma anche spiritualmente le due realtà dei suoi genitori.
Possiamo, allora, concludere il disegno delle fondamenta della “casa”-famiglia con l’ultimo sguardo a questa coppia e al loro nome che ci presenta le ultime due parole: la donna «la si chiamerà ’isshah , perché da ’ish [l’uomo] è stata tratta» (2,23). Non c’è bisogno di spiegare come l’autore sacro abbia voluto ricordarci che queste due persone che costituiscono la coppia sono uguali nella loro dignità radicale, ma differenti nella loro identità individuale: ’ish è l’uomo nella sua realtà specifica e ’isshah è lo stesso termine ma al femminile, svelando così come la donna e l’uomo siano entrambi persone umane, pur nella diversità dei loro generi sessuali. La pienezza dell’umanità è in questa uguaglianza fatta di reciprocità necessaria, dialogica e complementare. La persona umana è, quindi, “duale” ed è così che realizza la sua autentica “identità”.
          Abbiamo, dunque, inanellato un settenario di vocaboli che reggono la base da cui sorge la famiglia, ossia la coppia: ‘ezer-aiuto indispensabile, che è ke-negdô, ci sta di fronte alla pari, simbolicamente raffigurato nella “costola”, cioè nella stessa componente strutturale dell’essere umano; l’uno e l’altra si abbracciano (dabaq), divenendo “una carne unica” (basar ’ehad) e recando i nomi uguali ma non identici di ’ish  e di ’isshah. A suggello facciamo risuonare un appello intenso del Talmud, la grande raccolta della tradizione religiosa giudaica: «State molto attenti a far piangere una donna perché Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale, un po’ più in basso del braccio per essere protetta, e dal lato del cuore per essere amata». Nel cristianesimo, poi, questa unità d’amore riceve un suggello trascendente ulteriore che l’apostolo Paolo chiama “mistero” (Ef 5,32) e la teologia “sacramento”. In modo illuminante il teologo martire del nazismo Dietrich Bonhoeffer così commenterà questo trapasso: «Il matrimonio è più del vostro amore reciproco… Finché siete voi soli ad amarvi, il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia. Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio chiama al suo regno».

           Le pareti di pietre vive
          Quando san Pietro tratteggia «l’edificio spirituale» della comunità ecclesiale, descrive le sue ideali pareti come costituite da líthoi zóntes, «pietre vive», che s’aggregano attorno alla «pietra viva» fondamentale che è Cristo (1Pt 2,4-5). Raccogliamo questa simbologia e la applichiamo alla casa che stiamo innalzando, quella della famiglia. Anche nel Cantico dei cantici, che è per eccellenza il poema dell’amore, si leva un “muro” al quale è appoggiato l’amato e questa parete è detta in ebraico kotel (Ct 2,9), che è lo stesso termine con cui oggi si denomina il muro del tempio di Gerusalemme davanti al quale l’Israele prega il Signore. Ebbene, quali sono le “pietre vive” che compongono le pareti della famiglia innalzandola verso l’alto, l’oltre, il futuro? Sono i figli. È curioso notare che, statisticamente parlando, la parola che ricorre più volte nell’Antico Testamento – al di là delle congiunzioni, gli articoli, le preposizioni e gli avverbi, e dopo il nome divino Jhwh (6828 volte) – è il vocabolo ben, “figlio”, che risuona per 4929 volte!
          Il legame di ben con la casa risulta diretto e intimo se si tiene conto che il verbo “costruire, edificare” in ebraico è banah, e la rappresentazione più incisiva di questo vincolo stretto è nella miniatura poetica del Salmo 127: «Se il Signore non costruisce (banah) la casa, invano vi faticano i costruttori… Ecco eredità del Signore sono i figli (ben), è un suo premio il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli (ben) avuti in giovinezza. Beato l’uomo che ne ha colma la faretra: non sarà umiliato quando verrà alla porta a trattare coi suoi nemici». Certamente il Salmo riflette una società di stampo agrario ove le braccia per il lavoro nei campi e negli scontri tribali erano decisive. La scena finale è tipicamente orientale: il padre, simile a uno sceicco, attorniato dalla sua folta e vigorosa prole, quasi fosse una guardia del corpo, incute timore quando si presenta alla porta davanti ai suoi avversari. Già nella Sapienza di Ani, un testo egizio del XIII secolo a.C., si leggeva: «L’uomo i cui figli sono numerosi è salutato rispettosamente e temuto a causa dei suoi figli». La  pienezza della famiglia è tendenzialmente affidata alla discendenza.
          Tuttavia, per approfondire questo tema in chiave teologica, raccogliamo l’invito stesso di Cristo che spinge, per parlare della famiglia, a risalire ap’ archés, “in principio”, e ritorniamo alla Genesi, a un passo del primo racconto della creazione posto proprio in apertura alla Bibbia. Là si legge questa frase: «Dio creò l’uomo a sua immagine, / a immagine di Dio lo creò / maschio e femmina li creò» (1,27). Lo schema del parallelismo tipico della letteratura semitica rivela che “immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”. Dio, allora, è sessuato e accanto a lui si asside una compagna divina, come l’Ishtar-Astarte babilonese? Ovviamente no, sapendo con quanta nettezza la Bibbia rifiuti come idolatrica questa concezione diffusa tra gli indigeni Cananei della Terrasanta. Dio resta trascendente, ma è creatore e la fecondità della coppia umana è “immagine” viva ed efficace dell’atto creativo divino, ne è un segno visibile; la coppia che genera è la vera “statua” (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce) che raffigura il Dio creatore e salvatore.
L’amore fecondo è, perciò, il simbolo della realtà intima di Dio e proprio per questo il racconto della Genesi, secondo la cosiddetta “Tradizione Sacerdotale”, è tutto scandito sulle sequenze genealogiche (1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17,2.16; 25,11; 28,3; 35, 9.11; 47,27; 48,3-4): la capacità di generare della coppia umana è la via sulla quale si snoda la storia della salvezza. Possiamo, anzi, dire che l’intera Bibbia è per molti versi un’ininterrotta storia di famiglie. È, però, da notare che, accanto all’“immagine” (selem), si parla anche di “somiglianza” (demût), un modo per sottolineare la non-identità totale fra divinità e umanità; esiste una distanza, marcata proprio da questo secondo vocabolo: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza» (1,26). Il mistero di Dio ci trascende, ci precede e ci eccede.
Sta di fatto, però, che la relazione generativa umana diverrà l’analogia illuminante per scoprire il mistero di Dio: fondamentale al riguardo è la visione trinitaria cristiana che introduce in Dio un Padre, un Figlio e lo Spirito d’amore. Dio-Trinità è comunione di amore e la famiglia ne è il riflesso vivente. E come i tre umani, uomo-donna-figlio, sono “una cosa sola”, così Padre-Figlio-Spirito sono un unico Dio. Le parole di Giovanni Paolo II, pronunciate il 28 gennaio 1979, durante il suo viaggio apostolico in Messico, sono illuminanti: «Il nostro Dio nel suo mistero più intimo non è una solitudine, ma una famiglia, dal momento che ci sono in lui la paternità, la filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Quest’amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo. Così, il tema della famiglia non è affatto estraneo all’essenza divina». L’analogia trinitaria, come è noto, ha poi una declinazione cristologico-ecclesiale da parte di san Paolo riguardo al “mistero” dell’unione nuziale (Ef 5,21-33).
          Infine, dobbiamo ricordare che sulle pareti di pietre vive della casa familiare sono incise due epigrafi che delineano l’impegno vitale morale dei suoi abitanti. Sono i due comandamenti capitali della famiglia. Da un lato, ecco il precetto nuziale della fedeltà: «Non commetterai adulterio» (Es 20,14), ricondotto da Cristo alla pienezza del progetto divino originario dell’amore totale e indissolubile (Mt 5,27-28; 19,3-9). D’altro lato, ecco il comandamento sociale: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12), dove la figura paterno-materna incarna tutta la complessa rete delle relazioni sociali, essendo appunto la famiglia la cellula germinale del tessuto comunitario. E naturalmente queste due ideali epigrafi ricevono il loro commento in tante pagine bibliche e in tanti insegnamenti del magistero ecclesiale sulla famiglia, a partire dalle celebri “tavole domestiche” paoline (Ef  5,21-6,9; Col 3,18-4,1).

           Le tre stanze della “casa”-famiglia
          Una casa è costituita da spazi diversi in cui si consuma l’esistenza dei suoi abitanti. Noi ora evochiamo tre locali simbolici e lo facciamo in modo molto essenziale, consapevoli in realtà che in essi si nascondono opere e giorni ora monotoni ora esaltanti. La prima è la stanza del dolore. Aveva ragione Tolstoj quando, nel suo celebre romanzo Anna Karenina, affermava che «le famiglie felici si somigliano tutte; le famiglie infelici sono infelici ciascuna a modo suo». La Bibbia stessa ne è testimone costante, a partire dalla brutale violenza fratricida di Caino su Abele e dalle liti tra i figli e le spose degli stessi patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, per passare poi alla tragedia che insanguina la famiglia di Davide col figlio Assalonne aspirante parricida, fino a giungere alle molteplici difficoltà che costellano quel mirabile racconto familiare che è il libro di Tobia o a quell’amara confessione di Giobbe abbandonato e isolato: «I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei… Il mio alito fa schifo a mia moglie, faccio ribrezzo ai figli del mio grembo» (19, 13.17). Lo stesso Gesù nasce all’interno di una famiglia di profughi, entra nella casa di Pietro ove la suocera è malata, si lascia coinvolgere dal dramma della morte nella casa di Giairo o in quella di Lazzaro, ascolta il grido disperato della vedova di Nain o del padre dell’epilettico di un villaggio ai piedi del monte della Trasfigurazione.
          Nelle loro case incontra pubblicani come Matteo-Levi e Zaccheo, o peccatrici come la donna che s’introduce nella casa di Simone il lebbroso; conosce le ansie e le tensioni delle famiglie travasandole nelle sue parabole: dai figli che lasciano le case per tentare l’avventura (Lc 15,11-32) fino ai figli difficili dai comportamenti inspiegabili (Mt 21,28-31) o a quelli vittima di violenza (Mc 12,1-9). E si interessa anche di nozze che corrono il rischio di diventare imbarazzanti per assenza di vino o di ospiti (Gv 2,1-10; Mt 22,1-10), così come conosce l’incubo per lo smarrimento di una moneta in una famiglia povera (Lc 15,8-10). Si potrebbe continuare a lungo nel descrivere la vastità della stanza del dolore, naturalmente giungendo fino ai nostri giorni quando le pareti domestiche registrano spesso la decostruzione dell’intero edificio familiare in una sorta di terremoto. La lista delle antiche lacerazioni dei divorzi, ribellioni, infedeltà, aborti e così via si allarga a nuovi fenomeni socio-culturali come l’individualismo, la privatizzazione, i sorprendenti e non di rado sconcertanti percorsi bioetici della fecondazione in vitro, dell’utero in affitto, della coppia omosessuale e delle relative adozioni, delle teorie sul “gender”, della clonazione, della monogenitorialità, della pornografia e via dicendo.
          Una lista di realtà che scuote l’impianto tradizionale della famiglia e che rende la casa un qualcosa di “liquido”, plasmabile in forme molli e mutevoli che impongono continue riflessioni di natura culturale, sociale ed etica. Noi ci fermiamo qui, affidando ad altri questa visita ardua allo spazio delle difficoltà e degli interrogativi, uno spazio dai confini incerti che lo rendono contenitore di “mondovisioni” diverse, di veri e propri “multiversi” incontenibili. Accanto, però, troviamo subito un altro locale ove ferve l’opera umana, ma che, purtroppo, non di rado ai nostri giorni si fa deserto e sembra aprire le sue porte quasi automaticamente alla camera della sofferenza appena descritta. Parliamo, infatti, della stanza del lavoro. Nel progetto divino della creazione da cui siamo partiti l’uomo era invitato a “prendere possesso” (kabash) e a “governare” (radah) il creato, simbolicamente rappresentato come un giardino ricco, fertile e popoloso: «Riempite la terra, prendetene possesso e governate i pesci del mare, gli uccelli del cielo e ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1,28).
          Anzi, si ribadiva – usando in ebraico i verbi stessi del culto e dell’alleanza con Dio, ‘abad e shamar, “servire” e “osservare” – che «il Signore Dio prese l’uomo e lo collocò nel giardino di Eden, perché lo coltivasse (‘abad) e lo custodisse (shamar)» (2,15). Dopo tutto, la stessa rappresentazione del Creatore è quella di un lavoratore che opera (bara’, “creare”, è il verbo dell’artigiano) per una settimana lavorativa di sei giorni (1,1), o anche di un pastore (Sal 23) o di un contadino (Sal 65,10-14), o di un tessitore o di un vasaio che modella il suo capolavoro tessile o fittile (Gen 2,7; Ger 18,6; Sal 139, 13-16; Gb 10,8-11). Egli nella sua opera di creazione non è certo simile a un guerriero distruttore come si aveva, invece, nelle antiche cosmologie del Vicino Oriente. È in questa luce che il Salmista dipinge un delizioso interno familiare che ha al centro una festosa tavolata ove è assiso il padre che può nutrire se stesso, la sua sposa, comparata a una vite feconda, e i figli, vigorosi virgulti d’olivo, attraverso «la fatica delle sue mani» (Sal 128, 2-3). È una felicità che nasce dall’impegno pesante del lavoro (labor in latino è anche “travaglio”, come nel francese travail, e deriva dalla radice indoeuropea labh- che designa un “afferrare” per trasformare).
          È una serenità che dilaga anche nella società e nelle generazioni future: «Possa tu vedere il bene di Gerusalemme… Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!» (128, 5-6). Il lavoro, infatti, è un dono divino, come suggerisce il Salmo precedente, il 127, quello del padre e dei figli a cui abbiamo già accennato: «Se il Signore non vigila sulla città…, invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica» (127,2). Ne è consapevole anche la materfamilias il cui ritratto suggella il libro dei Proverbi, donna sapiente e fedele a Dio il cui lavoro è celebrato in tutti i particolari quotidiani, così da attirarsi la lode del marito e dei figli (31,10-31). Lo stesso apostolo Paolo sarà orgoglioso dell’aver vissuto senza esser di peso a nessuno con l’opera delle sue mani, tanto da imporre la regola ferrea: «Chi non lavora neppure mangi» (2Ts 3,7-12: cf. At 18,3).
          Detto questo, si comprende che la disoccupazione e la precarietà si trasformano in sofferenza, come si registra nel delicato ed emozionante libretto di Rut e come ricorda Gesù nella parabola dei lavoratori a giornata, seduti in ozio forzato nella piazza del villaggio (Mt 20,1-16), o come egli sperimenta nel fatto stesso di essere circondato spesso da miserabili e da affamati, così come era accaduto al profeta Elia che si era trovato davanti una vedova col figlio sfiniti dalla fame (1Re 17,7-18). È ciò che la società contemporanea sta vivendo in modo talora tragico e questa assenza di lavoro si trasforma in un vero e proprio attentato alla solidità della “casa”-famiglia.  Non bisogna neppure dimenticare la degenerazione che il peccato introduce nella società, quando l’uomo si comporta da tiranno nei confronti della natura, devastandola, sfruttandola egoisticamente e brutalmente, secondo norme dispotiche, così da rendere il lavoro una cupa alienazione, segnata dal sudore personale, dalla desertificazione del suolo (Gen 3,17-19) e dagli squilibri economico-sociali contro i quali si leverà forte e chiara la denuncia costante dei profeti, a cominciare da Elia (1Re 21) e Amos per giungere fino allo stesso Gesù (ad es. Lc 12,13-21; 16,1-31). L’arricchimento sfrenato, fonte di ingiustizie, è alla fine un’idolatria, come scriveva il teologo Paul Beauchamp, nella sua opera La legge di Dio: «O l’uomo adora Dio perché è Dio che lo ha fatto, o l’uomo adora l’idolo perché è lui stesso ad averlo fatto. Io adoro colui che mi ha fatto o adoro colui che ho fatto… L’idolatria colpisce il lavoro, come certe malattie colpiscono più alcuni organi che altri».

           La stanza della festa
          C’è, però, una terza e ultima camera della nostra “casa” simbolica: è la stanza della festa e della gioia familiare. Essa, come suggeriva il filosofo Soeren Kierkegaard, deve avere la porta che «si apre verso l’esterno così che può essere richiusa solo andando fuori da se stessi». E comunicare con l’esterno può essere complesso e faticoso perché si presentano fenomeni inediti come la globalizzazione, la civiltà digitale con la sua rete che avvolge il globo, il fermento della scienza che non teme di inoltrarsi lungo sentieri d’altura come nel caso delle neuroscienze e delle biotecnologie, l’incontro con volti diversi e il cosiddetto “meticciato” delle culture e via elencando. Questa molteplicità d’esperienze è, però, feconda e può arricchire la festa della famiglia, qualora essa sappia custodire nel dialogo la sua identità cristiana in forma non aggressiva e integralistica, ma sappia anche non stingersi e scolorirsi in un generico e vago sincretismo. Bisogna, quindi, ricordare che l’ingresso in questa stanza solare avviene non di rado dopo una lunga attesa e un’intensa preparazione, come affermava in modo suggestivo nel suo Diario lo scrittore francese Jules Renard: «Se si vuol costruire la casa della felicità, ci si deve ricordare che la stanza più grande dev’essere la sala d’attesa».
Questo spazio gioioso è collegato e adiacente al locale del lavoro. A questo proposito è significativo ancora una volta il racconto d’apertura della creazione secondo la Genesi. In quella pagina emerge un elemento simbolico dialettico che raccorda appunto lavoro e festa. L’uomo è considerato il vertice della creazione: non è solo una realtà “bella/buona” (tôb) come le altre creature, ma è “molto bella/buona” (Gen 1,31). Eppure egli è creato il sesto giorno e il sei, nella simbologia numerica biblica, è indizio di imperfezione, essendo il sette il segno della pienezza. L’uomo è, quindi, prigioniero del limite temporale, spaziale, fisico e metafisico. Tuttavia, può evadere dal carcere della sua natura creaturale e della stessa ferialità: lo fa quando celebra il sabato, il settimo giorno, la festa, la liturgia, la preghiera. Quel giorno, infatti, è il tempo di Dio, l’orizzonte trascendente in cui egli “riposa” nella pienezza della sua gloria. Per questo, il sabato è tratteggiato dalla Genesi come un tempio che viene “benedetto” e “consacrato”: «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò» (2,3), rendendolo la sede della vita piena e perfetta, il tempio nel tempo, scandito dall’eternità.
          L’uomo e la donna, quando celebrano la liturgia festiva, entrano nel tempio/tempo eterno divino. Come scriveva il pensatore mistico ebreo Abraham J. Heschel nel suo noto testo sul Sabato (1951), «per sei giorni viviamo sotto la tirannia delle cose dello spazio; il sabato ci mette in sintonia con la santità del tempo. In questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione, dal mondo della creazione alla creazione del mondo». In questa linea è significativo registrare nella duplice redazione del Decalogo la diversa motivazione che giustifica la festa sabbatica. Da un lato, in Dt 5,12-15 si sottolinea l’uscita dal regime del lavoro feriale, rievocando la liberazione dall’alienazione dell’oppressiva schiavitù egizia; d’altro lato, in Es 20,8-11 si celebra l’ingresso nel riposo perfetto ed eterno del settimo giorno “benedetto e consacrato” da Dio dopo i sei giorni della creazione. La festa è, quindi, liberazione dal limite e partecipazione all’eternità, è comunione con Dio che strappa la creatura umana dal sesto giorno e la introduce nella festa del settimo ove essa “riposa” come Dio.
          È per questo che la Lettera agli Ebrei dipinge la vita eterna come un sabato senza fine, non più compresso dalla fuga del tempo né occupato dagli idoli terreni o striato dal peccato umano (3,7 – 4,11). È per questo che l’apocrifo giudaico Vita di Adamo ed Eva afferma che «il settimo giorno è il segno della risurrezione e del mondo futuro». È per questo che la festa primaria dell’Israele biblico, la Pasqua, è di sua natura familiare ed è collocata nello spazio della tenda domestica (Es 12): essa è la celebrazione dell’uscita-esodo dal lavoro oppressivo imposto dal faraone ed è l’avvio dell’ingresso nella terra promessa che diventa un simbolo della patria celeste, come appare esplicitamente nella trama sia del Libro della Sapienza sia dell’Apocalisse.
          È per questo, come si è già ricordato in apertura, che la celebrazione eucaristica delle origini cristiane aveva come sede proprio la ecclesia domestica e come contorno il convito familiare (1Cor 11,17-33). Era là che i genitori diventavano i primi araldi della fede per i loro figli. Già nell’antico Israele la famiglia era il luogo della catechesi: è ciò che brilla nel racconto della celebrazione pasquale e che sarà esplicitato nella haggadah giudaica, ossia nella “narrazione” dialogica che accompagna il rito pasquale. Anzi, il Salmo 78 esalta l’annuncio familiare della fede: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi» (78, 3-7).
          Pertanto, la festa autentica non è né un orizzonte vuoto e inerte, come Tacito bollava il sabato degli Ebrei, né è un mero week-end, ma è un evento positivo, è segno di una trascendenza resa disponibile alla creatura, è dono di una comunione con Dio, è la requies aeterna che i cristiani augurano ai loro defunti e che è già pregustata nella liturgia terrena del “giorno del Signore”, la “domenica” (Ap 1,10). Possiamo, dunque, affermare con Benedetto XVI che «il lavoro e la festa sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr. Gen 1-2) ci dice che la famiglia, il lavoro e il giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana».
          Queste parole del Papa, desunte dalla Lettera per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie, riassumono la nostra visita ideale nella sala della festa che si apre nella casa simbolica che abbiamo descritto. Ricorrendo al celebre motto benedettino, possiamo dire che il labora dell’impegno feriale si deve aprire all’ora della liturgia festiva, conservando comunque l’unità dell’Ora et labora settimanale. La porta della “casa”-famiglia si spalanca, quindi, anche sull’altro versante del monte ove essa è posta, un versante illuminato dal sole dell’eternità e dell’infinito. Detto in altri termini, la stanza della festa ha davanti a sé una terrazza che s’affaccia sul cielo e sul futuro escatologico, quando tutte le tribù di Israele e «una moltitudine immensa e innumerevole di ogni nazione, famiglia, popolo e lingua staranno tutte in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolte in vesti candide, con rami di palma nelle loro mani» (cf. Ap 7,4-9).
          Sarà, quindi, la liturgia perfetta, la festa eterna, il futuro definitivo che era prefigurato proprio dai figli che evocavano nella storia la novità, l’alterità, la continuità temporale, l’attesa, la progettualità. A quella “immortalità” affidata alle generazioni che si distendono nel tempo succede ora la vera e piena immortalità, la pasqua che non ha tramonto: «in quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo, sarà un unico giorno, solo il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte e verso sera risplenderà la luce… La città non avrà bisogno della luce del sole né della luce della luna, la gloria di Dio la illuminerà e la sua lampada sarà l’Agnello» (Zc 14, 6-7; Ap 21,23). Allora si chiuderà per sempre la “stanza del dolore” perché Dio «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4).
          Mentre contempliamo la “casa”-famiglia che dovremmo erigere nella nostra storia sulla scia del desiderio che Dio ha espresso nelle Scritture, risuona un’ultima parola: è quella della speranza, virtù molto realistica, come affermava il poeta francese Charles Péguy che ad essa ha dedicato un poemetto, Il portico del mistero della seconda virtù (1911): «È sperare la cosa difficile / a voce bassa e vergognosamente. / E la cosa facile è disperare / ed è la grande tentazione». Certo, è arduo edificare e tener salda questa casa, come ripeteva il grande Montaigne nei suoi Saggi, perché «governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno». Eppure, l’amore fiducioso e generoso può compiere miracoli. Persino un pessimista come il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, nella sua amara Casa di bambola (1879), non esitava a riconoscere – sia pure al negativo – che «la vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda solo sul principio dell’io ti do e tu mi dai». Cristo ha introdotto, invece, quest’altro principio: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Gv 15,13), varcando così la stessa legge, pur alta, dell’«amare il prossimo come se stessi».
          Immaginiamo, allora, di intuire in finale, in una stanza della nostra casa simbolica, quel delizioso quadretto che il Salmista ha abbozzato soltanto con 11 vocaboli in un testo composto di sole 30 parole ebraiche. È il Sal 131 che introduce nella famiglia e nella fede quella virtù che ai nostri giorni è brutalmente ignorata, la tenerezza. Come accade altrove nella Bibbia (ad es. Es 4,22; Is 49,15; Sal 27,10), il legame tra il fedele e il suo Signore è modellato sul rapporto genitoriale. Qui è la dolce e tenera intimità che intercorre tra una madre e il suo bambino. Non si tratta, però, di un neonato che, dopo essere stato allattato, dorme placido tra le braccia della sua mamma, bensì – come esplicita il vocabolo ebraico gamûl – è di scena un bimbo “svezzato” che s’attacca consapevolmente alla madre che lo porta sul dorso, in una relazione di intimità cosciente e non meramente biologica.
          Canta, dunque, il Salmista: «Io ho l’anima mia distesa e tranquilla; come   un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia» (131,2). In dissolvenza potremmo far scorrere un’altra scenetta parallela, quella di un padre profeta, Osea, il quale metteva in bocca a Dio padre questo soliloquio familiare che immaginiamo di intravedere anch’esso da una delle finestre della nostra “casa” simbolica: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato… Gli insegnavo a camminare tenendolo per mano… Lo attiravo con legami di tenerezza, con vincoli d’amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1-4). Con quest’ultimo sguardo che intreccia fede e amore, grazia e impegno, famiglia umana e Trinità divina, contempliamo per l’ultima volta la casa che la Parola di Dio affida alle mani dell’uomo, della donna e dei figli perché compongano «una comunione di persone, segno e immagine della comunione del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La sua attività procreatrice ed educativa è il riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata a condividere la preghiera e il sacrificio di Cristo. La preghiera quotidiana e la lettura della Parola di Dio corroborano in essa la carità» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2205).   

          
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Fonte :  www.theologia.va/content/cultura/it/organico/cardinale-presidente/texts/varsavia.html 






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