venerdì, aprile 25, 2025

Governo del territorio: pianificare per il bene comune, di Martino Mazzoleni


Governo del territorio e Dottrina sociale della Chiesa: pianificare per il bene comune

di Martino Mazzoleni




Governare il territorio attraverso la pianificazione dello spazio fisico è compito fondamentale delle autorità politiche per garantire un ambiente sano, i servizi fondamentali per la collettività, una coesistenza pacifica, la qualità della vita delle persone. La dottrina sociale della Chiesa richiama ripetutamente le istituzioni ad orientare lo sviluppo economico e a ricercare armonia, coesione e giustizia con scelte libere da interessi particolari e finalizzate allo sviluppo integrale della persona.


Pianificazione e governo del territorio

Nel corso della storia, la teoria del planning ha visto alternarsi diversi paradigmi dominanti, a partire dal modello razionalista, che predicava un processo decisionale efficientista e tecnocratico (Faludi, 1973), fino alla frammentazione del panorama teorico dell’urbanistica post-moderna. Oggi l’approccio prevalente alle decisioni di pianificazione si fonda su una governance aperta agli stakeholder e alla partecipazione del pubblico (Couch, 2016, 296). Ciò ha implicato il graduale abbandono di un’urbanistica intesa come attività direttiva, appannaggio dell’autorità pubblica, a favore di una programmazione strategica capace di delineare scenari di lungo periodo per i territori, catalizzando idee e progettualità dagli attori pubblici, privati e sociali. Approccio divenuto noto come “governo del territorio”.
Sul piano sostantivo, nel tempo la pianificazione – a seconda dei modelli teorici e delle letture più o meno ideologizzate del concetto di sviluppo – ha sostenuto obiettivi quali l’espansione residenziale, lo stimolo alla competitività dei territori, la deregulation, fino ad abbracciare, nei decenni recenti, l’imperativo della sostenibilità declinata in termini di contrasto all’espansione urbana e progettazione di spazi vivibili e green (ivi, 53).

Gli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa

Il buongoverno degli spazi di vita è indissolubile dallo sviluppo della persona umana, «che di natura sua ha assolutamente bisogno d’una vita sociale» (Gaudium et spes, 1965, 25) e, pertanto, vive in contesti collettivi, con le loro contraddizioni e conflitti. La pianificazione ha proprio la funzione di mediare i conflitti, inerenti all’uso del territorio, tra aspirazioni individuali ed esigenze collettive, tra crescita economica e tutela dell’ambiente (Couch, 2016, 297).
Paolo VI ha lamentato «i tristi ammassamenti delle periferie» (Octogesima adveniens, 1971, 8) e Francesco «la smisurata e disordinata crescita di molte città che sono diventate invivibili» a causa dell’inquinamento ambientale, «visivo e acustico», «il caos urbano» e «i problemi di trasporto […]. Molte città sono grandi strutture inefficienti che consumano in eccesso acqua ed energia. Ci sono quartieri […] congestionati e disordinati, senza spazi verdi sufficienti. Non si addice ad abitanti di questo pianeta vivere sempre più sommersi da cemento, asfalto […] privati del contatto fisico con la natura» (Laudato si’, 2015, 44).
Se lo sviluppo non deve mirare primariamente al benessere socio-economico (Gaudium et spes, 64; Sollicitudo rei socialis, 1987, 46), bensì al «raggiungimento dei fini ultimi della persona» e «il bene comune universale dell’intera creazione» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2004, 170), allora il governo dello spazio fisico può fornire un importante contributo. Esso deve rispettare quelle «esigenze del bene comune» quali «la salvaguardia dell’ambiente» e «la prestazione di quei servizi essenziali delle persone, alcuni dei quali sono al tempo stesso diritti dell’uomo: […] abitazione, lavoro, educazione e accesso alla cultura, trasporti, salute» (ivi, 166).

Quali obiettivi perseguire?

Partendo da questi principi, sul piano operativo le scelte di pianificazione degli spazi fisici possono ispirarsi ad indicazioni della dottrina sociale quali:

• aree per l’edilizia residenziale pubblica o cooperativa, per fornire «un’abitazione decente e a prezzo accessibile» (Octogesima adveniens, 11) a chi non possa entrare nel libero mercato della casa;

• mantenere aree industriali per contribuire a scongiurare lo spostamento delle attività lavorative, con i conseguenti «problemi sociali» connessi alla «disoccupazione» e «mobilità delle persone» (ivi, 9);

• spazi verdi e aree naturali, che non possono essere appannaggio di pochi privilegiati (Laudato si’, 45);

• spazi pubblici per «ricostruire, a misura della strada, del quartiere, o del grande agglomerato, il tessuto sociale in cui l’uomo possa soddisfare le esigenze della sua personalità» (Octogesima adveniens, 11). In particolare, «centri di interesse e di cultura […] circoli ricreativi, luoghi di riunione […] in cui ciascuno, sottraendosi all’isolamento, ricreerà dei rapporti fraterni” (ivi), nonché luoghi per il tempo libero «per distendere lo spirito, per fortificare la salute dell’anima e del corpo» mediante lo svago e lo sport, «che giovano a mantenere l’equilibrio dello spirito, ed offrono un aiuto per stabilire fraterne relazioni fra gli uomini di tutte le condizioni» (Gaudium et spes, 61).

La Laudato si’ raccomanda anche obiettivi qualitativi: la coesione delle aree urbane e la salvaguardia del carattere dei luoghi con i propri riferimenti culturali e paesaggistici, che «accrescono il nostro senso di appartenenza, la nostra sensazione di radicamento, il nostro “sentirci a casa”» (151). La qualità della vita dipende anche da questi fattori e può essere compromessa dalla «riduzione dell’ampiezza visuale» e la «perdita di valori culturali» (184) che scelte pianificatorie poco accorte possono produrre. È inoltre «importante che le diverse parti di una città siano ben integrate e che gli abitanti possano avere una visione d’insieme invece di rinchiudersi in un quartiere» e riescano a «vivere la città intera come uno spazio proprio condiviso con gli altri» i quali, in tal modo, «cessano di essere estranei e li si può percepire come parte di un “noi” che costruiamo insieme» (151).

Il ruolo dei poteri pubblici

Per raggiungere tali obiettivi, la pianificazione è il metodo giusto? Nella teoria come nelle prassi, è un dilemma antico quello tra l’assicurare «il libero esercizio dell’attività economica» (Compendio, 351), compresa quella in campo urbanistico ed edilizio, e il promuovere l’intervento pubblico per mitigare i fallimenti del mercato e «garantire una distribuzione equa di alcuni beni e servizi essenziali alla crescita umana dei cittadini» (ivi, 353). La Chiesa chiama i governanti a «scegliere, o anche […] imporre gli obiettivi da perseguire, i traguardi da raggiungere, i mezzi onde pervenirvi; tocca ad essi stimolare tutte le forze organizzate in questa azione comune” (Populorum progressio, 1967, 33). Spetta alle autorità politiche definire e orientare «la direzione dello sviluppo economico» (Compendio, 353), «pianificare, coordinare, vigilare e sanzionare», ma altresì «incoraggiare le buone pratiche, per stimolare la creatività che cerca nuove strade, per facilitare iniziative personali e collettive” (Laudato si’, 177).
Lo Stato deve garantire «coesione, unitarietà e organizzazione alla società civile di cui è espressione, in modo che il bene comune possa essere conseguito con il contributo di tutti i cittadini», armonizzando «con giustizia i diversi interessi settoriali» (Compendio, 168 e 169). Pertanto, poiché «spetta all’autorità farsi arbitra, in nome del bene comune, fra i diversi interessi particolari» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1997, 1908), «il potere politico deve sapersi disimpegnare» da essi «per considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di tutti» (Octogesima adveniens, 46). Nel governo del territorio, ciò significa scegliere senza essere guidati – pur senza ignorarle – dalle aspettative di vantaggi privati, come quelli generati da cambi di destinazione urbanistica dei suoli e dalla concessione di potenzialità edificatorie significative.
Al contempo, le istituzioni «devono aver cura di associare» alla regolazione dei rapporti economici «le iniziative private e i corpi intermedi, evitando in tal modo il pericolo d’una collettivizzazione integrale o d’una pianificazione arbitraria che, negatrici di libertà […] escluderebbero l’esercizio dei diritti fondamentali della persona umana” (Populorum progressio, 33).
Quanto agli strumenti da utilizzare, il Magistero fornisce indicazioni, che di seguito si espongono, circa tre dimensioni essenziali dei processi di policy, coerenti con alcuni dei fondamenti della teoria e pratica urbanistica contemporanea.

La regolazione degli usi del suolo

Oggetto precipuo della pianificazione, essa incide direttamente sul diritto alla proprietà privata. La funzione sociale della proprietà è stata al centro di molte riflessioni della filosofia e della dottrina giuridica ed è presente nel diritto costituzionale di molti paesi (Davy, 2020). La Chiesa afferma che la proprietà possiede intrinsecamente «una funzione sociale, fondata e giustificata […] sul principio della destinazione universale dei beni» (Sollicitudo rei socialis, 42), che è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale» (Laborem exercens, 1981, 19). Giacché tra i beni sono compresi quelli «della natura» (ibidem), vi si possono includere i suoli. Il governo dei suoli è centrale per la questione dell’equità dell’accesso alla terra e della lotta alla povertà alimentare (cfr. voce Accesso alla terra), specialmente in un periodo in cui terreni, edifici, interi quartieri sono divenuti asset dei mercati finanziari, mantenuti vuoti in funzione di investimenti speculativi e risparmio anziché per offrire una casa a chi ne ha bisogno (Davy, 2020). La dottrina contempla strumenti di regolazione della proprietà tradizionalmente usati dalla pianificazione: i «vincoli» sull’uso dei beni «da parte dei legittimi proprietari» quali la definizione delle funzioni urbanistiche ammissibili e i limiti all’edificabilità, e gli incentivi per «non tenere inoperosi i beni posseduti» e «destinarli all’attività produttiva» (Compendio, 178).

Analisi, conoscenza e decisione

Uno dei cardini delle scienze del planning è l’approccio interdisciplinare alla progettazione urbana (Faludi, 1973). Oggi i vari saperi sono chiamati a collaborare in un’ottica di disegno del territorio e dei rapporti che vi insistono, e non più di un intervento top-down finalizzato al semplice azzonamento urbanistico. Pertanto, è essenziale «che le decisioni siano basate su un confronto tra rischi e benefici ipotizzabili per ogni possibile scelta alternativa» (Compendio, 469), specialmente quando è in gioco «un mutamento significativo nel paesaggio, nell’habitat di specie protette o in uno spazio pubblico» (Laudato si’, 184). Occorre «l’analisi dei contesti umani, familiari, lavorativi, urbani» (ivi, 141) e dei «comportamenti delle persone. Non basta la ricerca della bellezza» nel progettare manufatti e territori, «perché ha ancora più valore servire […] la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco» (ivi, 150).

La partecipazione pubblica al processo di pianificazione

Distaccatasi dalle logiche tecnocratico-razionalistiche del passato, la teoria contemporanea raccomanda politiche partecipate e riflessive (Couch, 2016, 53-4), «pensate e dibattute da tutte le parti interessate» (Laudato si’, 183). Esse sono entrate nelle pratiche urbanistiche in molti contesti, offrendo esempi virtuosi (Venti et al., 2016) che hanno consentito di riallacciare rapporti di fiducia tra decisori e cittadini e progettare insieme lo sviluppo del territorio.
Per il Magistero è essenziale la partecipazione dei cittadini, singoli o associati, all’elaborazione delle scelte. Si tratta di «un dovere da esercitare consapevolmente da parte di tutti […] in vista del bene comune«, favorendo «la partecipazione soprattutto dei più svantaggiati» per «evitare che si instaurino privilegi occulti» a favore di pochi (Compendio, 189). È dunque «importante che il punto di vista degli abitanti del luogo contribuisca sempre all’analisi della pianificazione urbanistica» (Laudato si’, 150), informando tutti «sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità», ed è «sempre necessario acquisire consenso tra i vari attori sociali, che possono apportare diverse prospettive, soluzioni e alternative», nonché consentire «azioni di controllo o monitoraggio» (ivi, 183).

Conclusioni. La funzione imprescindibile della politica

La Chiesa insegna che, «in conformità alla natura sociale dell’uomo, il bene di ciascuno è necessariamente in rapporto con il bene comune» (Catechismo, 1905). Questo «non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto«, ma è «di tutti e di ciascuno […] perché indivisibile» (Compendio, 164). Strettamente connessa con le «esigenze del bene comune» è la promozione integrale della persona (ivi, 166), che è inscindibile dal governo dei luoghi della sua vita.
La politica non può abdicare al suo ruolo di guida, stimolo, sussidio dell’iniziativa individuale per progettare città e territori resilienti di fronte alle sfide del cambiamento climatico, delle crisi sanitarie, dei cambiamenti demografici e della globalizzazione. Sebbene per un decisore politico sia arduo e sovente poco gratificante, in termini di consenso popolare, cercare di contemperare le aspettative dei singoli con il bene della collettività, la politica deve servire il bene comune «non secondo visioni riduttive subordinate ai vantaggi di parte che se ne possono ricavare» (ivi, 167).
I risultati della pianificazione si realizzano in tempi lunghi, che collidono con la logica dell’immediatezza della politica, dettata dai tempi brevi dei cicli elettorali nei quali i decisori desiderano legittimamente mostrare ai cittadini il frutto del proprio impegno. Qui si gioca la responsabilità del politico nell’esercitare la sua libertà di decisore pubblico. «La grandezza politica si mostra quando […] si opera sulla base di grandi princìpi e pensando al bene comune a lungo termine» (Laudato si’, 178). Studiosi, urbanisti e decisori pubblici non possono, da soli, «determinare priorità macro-politiche» o cambiare i modelli economici dominanti (Couch, 2016, 298). Tutti, però, possono trarre proficue indicazioni da un Magistero che annuncia per quale fine governare il territorio, cioè il bene comune e lo sviluppo integrale dell’uomo, ne suggerisce i modi – illustrati sommariamente in questa voce – e chiama i cristiani a «prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli», dal locale al mondiale, «per cercare di realizzare insieme il bene della città» (Octogesima adveniens, 46).




Bibliografia:
• Couch C. (2016), Urban Planning. An Introduction, Palgrave Macmillan.
• Davy B. (2020), ‘Dehumanized housing’ and the ideology of property as a social function, «Planning Theory», 19(1), 38-58.
• Faludi A. (1973), Planning Theory, Pergamon Press.
• Venti D., Angelini R., Agostini A. (2016) (a cura di), Percorsi partecipativi nella progettazione e nella pianificazione. Metodi, esperienze, strumenti, INU Edizioni.

Autore: Martino Mazzoleni, Università Cattolica del Sacro Cuore (martino.mazzoleni@unicatt.it)

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lunedì, aprile 21, 2025

Abitare la Città, di Monica Canalis


ABITARE LA CITTA'
come costruire la casa per vivere insieme

di Monica Canalis


Antico panorama della città di Napoli


Nella Lettera a Diogneto del secondo secolo dopo Cristo si ritrova uno splendido ritratto dei cristiani: «I cristiani abitano ciascuno la propria patria, ma come stranieri residenti; a tutto partecipano attivamente come cittadini, e a tutto assistono passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria terra straniera. I cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo».

Da questo passo, così essenziale, emerge che il cristiano è quindi chiamato a non essere del mondo, ma al tempo stesso a non estraniarsi dal mondo. Il cristiano deve sentire come un dovere l’esercizio della propria cittadinanza e, in alcuni casi, l’accettazione della vocazione politica. Il cristiano che fa politica si sentirà spesso “pecora in mezzo ai lupi”, avrà spesso voglia di scappare, ma potrà, attraverso il servizio politico, incontrare i poveri e attraverso i poveri incontrare Dio.

Mario Delpini, arcivescovo di Milano, nell’ottobre 2017 ha pronunciato un discorso sulla sinodalità che racchiudeva questo passaggio: «La vita cristiana non è un percorso solitario» o un’«iniziativa personale», ma «il convergere nella città. L’edificazione della città è l’opera di Dio che convoca tutti e accoglie ciascuno perché sia profezia della città santa».

Costruire la città non esula quindi dai compiti del cristiano. Anzi. È vera e propria estrinsecazione della fede cristiana. 

La confusione che ci circonda, la difficoltà a far convivere culture diverse, l’ossessione per il politicamente corretto che oscura la verità delle cose, spesso spingono i cristiani a considerare la città come un mero contenitore esterno, la cornice urbanistica per le nostre parrocchie, le nostre associazioni, congregazioni o fraternità, una cornice spesso estranea, se non aliena o nemica della nostra casa. Ma questo è un grande equivoco. L’intera città è la nostra casa. Non solo la nostra parrocchia o la nostra associazione. E questo vale anche se ci sentiamo minoranza e spesso siamo mal tollerati per le nostre idee sulla famiglia, sul rispetto per la vita in ogni sua fase, sulla libertà educativa, sull’attenzione ai poveri, siano essi mendicanti, rifugiati, drogati, disabili o matti. La città è la casa dei cristiani e i cristiani devono interessarsene e sentirsene responsabili. 

Non con la logica della nicchia, ma con quella dello lievito.

La logica della nicchia è quella che spinge alla tensione difensiva di un fortino, alla chiusura in un rassicurante, ma sterile, recinto identitario. È la tentazione di stare tra di noi, costruendo una sorta di ghetto un po’ separato dal resto della città. Questa però non è una comunità. È un ghetto, appunto. Non bisogna costruire ghetti, ma abitare la città intera, essere minoranza in mezzo realtà che talvolta appaiono senza Dio, ma che bisogna guardare con sguardo di fede per vedere il passaggio di Dio, anche nelle persone apparentemente più lontane.

La logica del lievito, invece, è quella di una comunità poco numerosa come è oggi la comunità cristiana che abita le nostre città, una comunità che pur essendo piccola e poco numerosa riesce ad influenzare la maggioranza grazie alla qualità delle proprie idee e del proprio impegno. Sono i piccoli – di biblica memoria – che fanno cose grandi, se conservano la propria autenticità e non temono il confronto con chi è diverso e talvolta ostile al cristianesimo. Vivere la logica del lievito ha due condizioni: la preparazione e il coraggio. Solo cristiani preparati, saldi nella fede, ben formati, possono mescolarsi al resto della città con un sano spirito di fraternità senza perdere il proprio gusto e la propria specificità. Essere presenza minoritaria ma feconda, intransigente ma dialogante. Solo cristiani coraggiosi non hanno paura di esplorare una società che sfida il cristianesimo, col rifiuto dello straniero, l’ostentazione dell’appiattimento dei generi, l’attacco frontale alla famiglia, la strumentalizzazione dei simboli religiosi.

Per avere cristiani preparati e non paurosi servono comunità cristiane serie e ben guidate. Altrimenti il cristiano vaga in solitudine e rischia di perdersi. Prima di tutto dobbiamo rafforzare le nostre comunità cristiane.

Se la città è la casa dei cristiani, qual è l’apporto speciale che il cristiano può dare per costruire questa casa? Provo a spiegarlo facendomi aiutare da due grandi cristiani del passato: Giorgio La Pira e Paolo Borsellino.

La Pira diceva che «Una città non può essere amministrata e basta. Non è niente amministrare una città. Bisogna darle un compito. Altrimenti muore». E ancora: «La città è il domicilio organico della persona umana. In ogni città, degna di questo nome, ciascuno deve avere una casa per amare, una scuola per imparare, un’officina per lavorare, un ospedale per guarire, una chiesa per pregare e poi tanti giardini perché i bambini possano giocare ed i vecchi riposare in santa pace». E ancora: «La conquista individuale è incompiuta, se non è integrata e coronata da quella collettiva; l’apostolato non può perciò fermarsi alla conversione dei singoli; esso ha la sua naturale ed essenziale espansione nella conversione della città; se la città non è cristianamente costruita, l’opera di conversione individuale è tronca e può rapidamente decadere». Invece Paolo Borsellino una volta disse: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare».

Da queste citazioni capiamo che il cristiano ha un modo tutto suo di abitare la città. Un modo, un metodo, che sintetizzerei così:

1 - Il cristiano coltiva una visione, una missione per la città, che va oltre il qui e l’ora, oltre il localismo, la materialità delle cose e la quotidianità, per cercare una prospettiva, un’aspirazione universale e spirituale. Il cristiano, impegnato o meno in politica, non può limitarsi alla gestione dell’ordinario. Deve avere un progetto, un progetto di bene per la città.
2 - La città è la casa delle persone. Delle persone, non dei consumatori, degli elettori, dei cittadini, dei pazienti, dei lavoratori… la parola persona è più grande della parola cittadino (tanto amata dal M5S) o della parola consumatore. I cristiani che abitano la città devono lavorare per renderla più umana, più accogliente per ogni persona, devono considerare la persona nella sua globalità, non solo nei suoi bisogni materiali.
3 - Il progresso, la salvezza, non è solo un fatto individuale, ma anche collettivo, comunitario. Non possiamo pensare solo a salvare noi stessi, individualmente. Dobbiamo salvare le nostre città, le nostre comunità nel loro insieme, aiutarle a risvegliare la loro anima. Nessuno si salva da solo, recitava un detto popolare. Dobbiamo sentirci responsabili delle scelte e del destino delle nostre città.
4 - Per migliorare e far avanzare le nostre città dobbiamo amarle. Anche quando esprimono dei fatti ignobili o vengono fatte scelte che vanno contro i nostri principi. Penso ad esempio a quello che sta accadendo a Torino in merito all’idea di famiglia e al mainstream, al pensiero unico dominante sul tema del gender e della genitorialità per tutti, come se avere dei bambini fosse un diritto rivendicabile a prescindere dalla propria condizione. Solo amando le nostre città, cercando di capire perché si affermano queste idee, intavolando un confronto, si può essere presenza feconda.
 
Infine, il cristiano ha dei contenuti propri:

la centralità della persona;

la promozione del lavoro come mezzo fondamentale della realizzazione della persona;

il protagonismo della famiglia e delle formazioni sociali intermedie;

l’integrazione degli immigrati e delle altre minoranze nella comunità;

la partecipazione attiva dei lavoratori dentro l’impresa e la sua responsabilità sociale;

il buon funzionamento delle municipalità, specie in quanto primo riferimento e promotore di civismo dei cittadini;

la sussidiarietà;

la lotta contro ogni forma di illegalità;

il rispetto e l’attuazione della Costituzione;

la promozione di misure per contrastare la povertà, materiale e culturale;

il riconoscimento della soggettività sociale della comunità derivante dalla convinzione che il cittadino non vada inteso come individuo, ma come persona intrinsecamente legata con altre persone. La comunità è la somma dei legami e delle relazioni tra le persone, non una lobby di individui che perseguono i loro interessi individuali. Se ci fosse più spirito di comunità ci sarebbe meno paura in giro.

Insomma, per abitare la città, ogni cristiano deve restare ancorato ad un percorso di formazione continua, sul metodo, sui contenuti, sui segni dei tempi… soprattutto deve coltivare i legami di comunità, le relazioni umane, e non temere la dimensione dell’essere minoranza, perché come diceva il cardinal Martini: “Sono le minoranze a guidare la storia.




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